In un giornale che si occupa di promuovere la cultura nelle sue molteplici forme, non dovrebbero occupare troppo spazio fatti di politica e cronaca. Raccontare eventi come l’esposizione in Basilica (presente fino al 4 febbraio), libri, teatro e molto ancora è forse il tratto che rende unico e così importante ViCult. Tuttavia mi sembra quasi un dovere civico spendere qualche parola sulla manifestazione di sabato 20 gennaio, con cui Vicenza si è guadagnata la prima pagina di qualche giornalone nazionale. Nonostante la notizia sia stata già soppiantata da altre news, quello scontro tra manifestanti e forze dell’ordine, con tanto di fumogeni, idranti e feriti rimane un evento inconsueto quanto sconcertante. A sentire chi dice “Vicenza merita di più”, “Vicenza è un’altra cosa” verrebbe quasi da dargli ragione e chiuderla qui. Davanti alla violenza non si può che scuotere la testa: non si fa così. Sul triste scenario si sono pronunciati membri del consiglio comunale, il nostro sindaco e numerosissimi personaggi politici locali: condanna unanime agli scontri. È necessario però ricordare come per ogni fatto è fisiologico che le narrazioni siano molteplici. Ogni paio di occhi presenti ha visto qualcosa di leggermente diverso, o meglio, ha interpretato la realtà in modo diverso. Non si tratta di perverso relativismo, poiché non stiamo cercando il valore intrinseco di ciascuna delle interpretazioni, bensì si vuole ribadire che letture univoche e assolutamente vere dei fatti non sono compatibili con la dinamica e complessa situazione fenomenica. Dopo i resoconti piuttosto omogenei, non dovrebbe apparire troppo scandaloso udire anche note meno armoniose (legittimamente criticabilissime). Chiariamo subito che non c’è niente da giustificare. Sarebbe invece da chiedersi quali siano i motivi di tutto questo protestare – non solo a Vicenza -, chi siano gli “autentici professionisti della violenza di piazza” e cosa risulti dal bilancio mediatico. Se non altro, potrebbe essere utile a prevenire fatti simili o a capirci qualcosa di questi “cortei impazziti”, perché ciò che conosciamo fa meno paura.
Il 20 gennaio due manifestazioni si sono svolte regolarmente. Nella mattina, una parte (pare 500-700 persone) ha fatto incursione alla Fiera dell’Oro. Le forze dell’ordine hanno agito per far indietreggiare il corteo e il tutto è degenerato in uno scontro violento. Ma qual è il pensiero che ha mosso tutte quelle persone, tra l’altro di un’età media piuttosto bassa? Un odio cieco, ignorante e indiscriminato? Sarebbe ingenuo crederlo. In ogni fazione c’è qualcuno con idee più estreme, indigeribili, condannabili, agghiaccianti ma non è sufficiente a invalidare il messaggio di fondo, che in questo caso è: sostegno al popolo palestinese. Questo stesso messaggio fatica a trovare un suo medium, con conseguenze poco rassicuranti. Forse proprio il silenzio delle istituzioni, l’assenza di una qualche sicura solidarietà, non certo per Hamas, non prendiamoci in giro, ma per gli abitanti di Gaza, danno a queste persone un motivo per scendere in piazza. Sono mancate voci decise a supporto dei civili che vivono lì in condizioni estremamente precarie, tra bombe e macerie. L’esistenza dell’antisemitismo, dell’antigiudaismo e antisionismo, del mancato riconoscimento di Israele, i terribili eventi del secolo passato e l’attentato del 7 ottobre sono elementi gravissimi, della cui attualità si da conto nell’articolo “Esiste un problema antisemitismo”. Questo storico travaglio, ad oggi, coesiste con l’atroce massacro che si sta svolgendo in un preciso brandello di terra. Riconoscere un grande male non comporta la negazione di un altro. Rimanere profondamenti colpiti nell’apprendere che su 26.900 morti a Gaza il 70% sono donne e bambini e chiedere a chi detiene di fatto i poteri di esprimere quantomeno un certo sconcerto, è segno di umanità. Non comporta l’adesione automatica a posizioni antisioniste o di odio antisemita. Non è un aut aut. Non resta che dimostrare come non ci sia indifferenza verso quelle morti. Dimostrate, e mi rivolgo a chi li ha definiti tali, che non soltanto i “fascisti rossi dei centri sociali” si interessano a quelle persone. Purtroppo per chi deplora le proteste avvenute, i manifestanti hanno ottenuto esattamente ciò che cercavano: l’attenzione dei media. Un grande riflettore puntato sulla contestazione volta a bloccare il padiglione israeliano, al più grande salone europeo dedicato alla gioielleria. Tuttavia questo polverone e l’elemento “violenza” possono nuocere concretamente alla stessa causa, snaturandola, facendo passare i manifestanti come una pericolosa “squadraccia di nazicomunisti” che vuole solo infangare l’immagine della città. Se l’obiettivo è denunciare la mattanza a Gaza, proteste simili non faranno che accrescere il dissenso e l’indignazione di chi già è restio a riconoscere un qualche illegittimità, sul piano del diritto, all’agire di Israele. Si alimenta inoltre una falsa analogia che, in generale, vede le posizioni di chi critica Israele o difende i palestinesi vicine al fondamentalismo criminale di Hamas. Non so giudicarne l’efficacia, ma la protesta pacifica (per davvero) sembra essere la strada migliore ovvero la più condivisibile, ma ancora segnata da forti pregiudizi. Manifestazioni di questo genere non sono mancate, sollevando critiche su critiche. Anche nel caso (completamente diverso) della guerra in Ucraina, il pacifismo si è rivelato una strada tutt’altro che in discesa, con delle contraddizioni interne, che richiede impegno e non corrisponde all’equazione diffusa: pacifista uguale debole, impotente, ipocrita. Muovendosi sul filo del rasoio, appare ancor più evidente come talvolta così tante idee differenti siano davvero inconciliabili. Scoraggiante sì, ma anche no. Dopotutto è sintomo di democrazia sostanziale. Non sono molti, ad oggi, i luoghi in cui non è un crimine vergognoso che per ogni opinione, ne esista una diversa e contraria.