SARTEA, UNA MORTE GOURMET: LA FINE DELLA CULTURA DELLE OSTERIE

“I me ga dito che deso qua i fa ‘na banca”. Il vecchietto gentile, foulard al collo e coppola in testa, guarda sconsolato il giardino chiuso – come il bar – del Sartea a San Felice, poi va via col suo cagnetto nero. Il cane si chiama “Cartuccia” e fa un mugolio, appena vede il suo padrone intristirsi. Il bar Sartea ha chiuso, non prima di agonizzare. Tutti lo sanno in quartiere, tutti lo sanno in città. Qualcuno voleva che il Comune di Vicenza intervenisse, per salvare il simbolo delle osterie di Vicenza, la “nobile” osteria di Vicenza. Ma niente da fare, morta: uccisa dal progresso “gourmet”, come il resto delle osterie “de na volta”. Trasformate, irriconoscibili, cadaveri più o meno eccellenti

E dire che quell’edificio in stile liberty è sopravissuto all’attacco aereo in città del 2 aprile del 1944. Le case vicine, Mancini e De Carli, devastate dai bombardamenti. La birreria Sartea, intatta. Allora quell’edificio non ospitava un bar ma una fabbrica di birra con relativa mescita. Davanti ci passava il tram, una elettromotrice delle Officine Meccaniche che collegava Porta Castello a San Lazzaro. La “Birreria Sartea”, nata nel 1896 a Borgo San Felice, negli anni ’30 era il luogo preferito degli sportivi, vista la vicinanza con il campo dove l’Ac Vicenza, fino al 1935, giocava in  casa. Giacomo Sartea, dopo che la Grande Guerra distrusse il vecchio campo di Borgo Casale, donò infatti il suo terreno. Il terreno era ricoperto con il materiale di scarto della vicina fonderia e per questo il campo da calcio era chiamato “campo de carbonea”.

L’insegna “Birra Sartea” restò poi un ricordo all’interno del locale – che nel frattempo era diventato un bar – gestore dopo gestore, bicchiere dopo bicchiere, ciacola dopo ciacola. Il “Sartea” con il suo giardino unico a Vicenza – ma qualcuno dice al mondo – posto da caffè, da bianchi, da rossi, da zacchetti (Campari piccoli che han preso il nome da uno che lì era di casa) da concerti e prima – ma non tanto prima – da bisca. Un’osteria che, sul finire del secolo scorso, era arrivata ad unire i tavoli da carte dei “veci” ai concerti, le serate dj al giornale letto sui tavolini di ferro esterni. Le partite degli Europei i vicentini le guardavano nella piccola televisione fissata sull’angolo in alto del soffitto, a sinistra appena entrati. Alcune sedie erano prenotate, altre se le pigliava chi arrivava prima. I Mondiali venivano trasmessi fuori, sul “mega schermo” montato in giardino. Il migliore jazz si ascoltava in quel salone o in quel giardino delle delizie. I musicisti, anche quelli famosi, venivano apposta da altri festival per fare lunghissime jam. Si facevano pagare giusto le spese. I lunghi inverni erano riscaldati da serate alcoliche, feste e band di ogni tipo. Impossibile nominarle tutte.

I vicentini, pur di andarci, accettavano qualsiasi gestione, anche quelle più antipatiche, anche quelle più strane. Circolavano leggende, tra gli avventori. Leggende sempre al confine tra verità e fantasia, come quella di un laboratorio segreto, situato dopo la cucina, pieno di alambicchi artigianali dove si preparava il Campari depotenziato; oppure come quella dei “cartari”, giocatori incalliti che alla fine di una nottata feroce si erano giocati la casa l’auto di lusso, buttando le chiavi sul tavolo da gioco e uscendo incontro a mattine disperate. E poi arrivarono le voci. Le ciacole.

“Il Sartea xe drio sàrare”, “El gà vendù”. I  vicentini ci sarebbero però andati lo stesso, qualsiasi fosse stato il nuovo proprietario. Il nuovo proprietario…già si sapeva chi era prima della riapertura del nuovo Sartea ma nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventata una pizzeria. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe sparito il giardino per i goti e per il caffè, le carte, i concerti, i veci e gli spritz e le carte. Nel nuovo Sartea potevi entrare solo per mangiare: la pizza gourmet nei tavolini gourmet, nel giardino gourmet. Qualche irriducibile ci provò, a entrare. Provò a chiedere con insistenza un bicchiere ai zelanti camerieri con già in mano il telefono per chiamare il 113.  Ai vicentini da osteria quel posto era stato negato. Era stato tolto qualcosa al quartiere ma anche alla città e all’anima di Vicenza. Era finita un’epoca. Era morta una cultura. Uccisa da una pizza gourmet. “Saria sta mejo i cinesi, almanco ‘ndavino a bere na tazza”, era il commento più gentile, al tempo. Due anni e mezzo fa.

Sì, perché la nuova impresa, la start up innovativa, rispettosa delle “Belle Arti”, la rinascita con i prodotti del territorio e la birra pregiata, non durò molto. Giusto poco più di due anni. E poi i cancelli si chiusero di nuovo. Qualcuno diede la colpa al Covid, altri ai prezzi troppo alti, altri a presunti “tramaci”. Si parlò di fallimento, anche brutto. C’è chi tirò fuori la fantomatica maledizione dei due Santi: Felice e Fortunato. I vicentini restarono con un palmo di naso. Infelici e sfortunati, adesso sperano che non ci sia veramente una banca dietro. Una banca che magari si è mangiata tutto e adesso chissà che cosa ci mette al numero 362. In giro, nel quartiere, si dice che è quasi in porto un’operazione con qualcuno “che ghe sa fare”. Ciacole. Non bastano per rimarginare un colpo basso a una cultura, quella delle osterie, massacrata a colpi di pizza, per quanto da buongustai.

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