Nerina Noro. E mi me godo a vardare ‘na foia

di Simone Martinello

Go pensà che piutosto de cambiare, 

vado a l’inferno a farme cusinare.

C’è un’anomalia singolare nella poesia nazionale e regionale, che è però più evidente e marcata in Veneto: le pochissime donne che hanno scritto e pubblicato in dialetto a fronte del numero considerevole che hanno preferito farlo in lingua. Se da un lato scrivere in italiano può dare più visibilità, ammesso che sia veramente così, il vernacolo può essere avvertito, come ben scrive Matteo Vercesi, «come lingua della sopraffazione, della sottomissione e della rassegnazione al luogo canonico di moglie, di madre o di regina della casa. Scegliere di non scrivere in dialetto, pertanto, potrebbe essere valso agli occhi di una poetessa veneta del secondo Novecento, quale forma di resistenza ed opposizione ad un simile cliché.»¹

Nerina Noro va dunque controcorrente ed è una delle rare eccezioni femminili che si sottraggono a questa “rimozione”. D’altronde, ancor oggi, persino tra le categorie scolastiche, si sente l’uso del dialetto come una minorazione, e questo – come ha sempre sostenuto Franco Loi – «è un altro effetto devastante della discriminazione linguistica». È l’altra faccia dell’Italia che aspetta fin dall’unità un riconoscimento. È la poesia che vuole reintegrare tanta parte di sé all’interno della cultura. È la coscienza di una nazione che esige una riparazione. Pare impossibile che, dopo che si è consolidata l’unità dei luoghi e dei destini, non si sia ancora realizzata l’unità delle coscienze. E l’unità della lingua passa dall’abolizione del discrimine dialettale.

Giacomo Noventa voleva ispirarsi a tre grandi della nostra letteratura (Dante e Petrarca e quel dai Diese Giorni / gà pur scrito in toscan. / Seguo l’esempio) e per lui il dialetto non era un localismo periferico, ma una lingua universale che deve essere compresa da tutti. Nerina Noro, vicentina, con i suoi accenti di passioni, scatti di ribellione, può essere inserita fra i poeti “espressionistici”. Una poetica dell’anti-idillio, la sua, che la contraddistingue, come si può notare da questa composizione:

Go fato

‘na considerasion:

tuti garia

qualchedun da copare.

Se no ghe fusse

la leie che te condana,

te sentirissi sbarare

da la matina a la sera.

Mi, par primo

‘ndaria a spasso

col mitra.

Nerina sa benissimo che il ruolo del poeta ha un peso importante. Spetta a lui il tempo dell’attesa e dell’ascolto, affondare nel male e nello splendore di uomini in cerca del loro riscatto, ritrovarne la speranza, l’umorismo, l’allegria. Scoprire oltre il buio e il nulla, che spesso ci attanagliano, la poesia che è “là dietro”. Ritrovare, come Kundera che cita il poeta ceco Jan Skácel – “I poeti non inventano le poesie / la poesia è in qualche posto là dietro / è là da moltissimo tempo / il poeta non fa che scoprirla” – il respiro di un agguato di verità, il suo azzardo, la sua sempre “imperdonabile” (ma anche “immutabile”) scommessa. Trovo straordinario che questa concezione della poesia, e del poeta, sia la stessa di Osip Mandel’štam nel racconto struggente e doloroso che ne fa la moglie Nadezda nel memoir Speranza contro speranza. Il poeta, come il romanziere, non devono inventare: a loro il compito, o per meglio dire “il dono”, di scoprire. A Mandel’štam le parole della poesia risuonavano nella mente. Gli arrivavano, lui doveva semplicemente richiamarle, ricondurle a sé. In età staliniana era meglio ricordare piuttosto che lasciare traccia scritta. Del resto, sembra sapesse tutta la Commedia di Dante a memoria. La poetessa vicentina ha una visione sofferta della vita. A confermare questo il ricorrere dell’aggettivo desfà (disfatto) che, probabilmente, è anche una delle parole dialettali più usate dai Veneti. La sua produzione poetica è attraversata da un’inquietudine di fondo, ma appaiono anche gli affetti familiari, la simbiosi con la natura, la presenza dei defunti, il legame con la propria città, le tradizioni, il folklore. Un’interrogazione assidua, mai scontata né conclusa sull’esistenza umana. Una produzione poetica che è una “tavolozza” tematica variegata e che va oltre la poesia amorosa per aprirsi al sogno, all’irrazionale. 

La vose

Sta vose

che gavemo, 

el nostro fià 

gavìo mai pensà 

dove ch’el vada,

quando el corpo

che more 

el se destira, 

quando la boca

par sempre 

la sé sara?

El fià bramoso 

de svolare in alto 

l’aria el silensio 

el ciaparà d’assalto!

I fià s’inmucia 

e quando i xe contenti 

i ne caressa el viso

par la strada,

co n’arieta lesiera 

che ne basa.

Se le vose 

barufa scadenà 

si n’acorsemo 

con vien suso 

el vento.

Conosso anca mi

‘na vose ciara 

in meso a tute!

Me svola ‘rente al viso

un respiro, un fià…

la xe la vose 

de me papà. 

Vicenza

Su le to strade

go reçità 

la me vita.

Giorno par giorno 

te go fotografà 

dentro ‘n tei oci.

Te porto con mi

dapartuto, ‘n tel sangue. 

Ghe xe i me morti

soto sta tera!

‘N te la to aria

ghe xe le so vose,

se tuto tase

sento anca el fià. 

Dentro al to gnaro 

mi trovo tuto:

pianto, speransa, 

sogni desfà. 

Trovo anca i basi

che go ciapà

Go infiorà i me morti

Ghe xe un griso ‘n te l’aria 

‘na polvare sotile 

che la coerse tuto.

Çènare dei morti.

I xe giorni ‘sti qua

ch’i salta fora a solaiarse,

a dar un’ocià 

a quei ch’i ga lassà. 

Se te vardi coi oci 

sensa fodra de parsuto –

i to morti te li vedi

dapartuto.

Sta çènare ‘n te l’aria 

te vola in gola

la te fa un gropo 

che te struca el core. 

Piansendo te vien in amente 

che te mori,

te va a catarli 

e te ghe porti i fiori. 

Pòlvare de ala

Go tolto

per morosa ‘na farfala. 

I so basi 

lesieri come un’ala

i se taca

sui me lavri desparà.

Po… sul più belo

La me xola via!

La çerco coi oci 

dapartuto. 

Chi tole 

par morosa ‘na farfala

ghe resta:

solo pòlvare de ala.

El stradon de le Rassele 

El gera fato 

pai morosi desparà.

Che no ga casa,

che no ga stramassi.

‘Desso 

ghe xe ‘na luminaria

che te pol contare

i sassi. 

Tacà le piante al scuro

se gera rancurà 

e basso ‘rente al fiume

parèa che le parole

vegnèsse su, da l’acqua. 

Sa go

Sa go un quarto de luna

son come ‘na pianta.

Le raise 

çerca la so tera,

el çarvelo 

el s-ciopo par sbarare.

Voio i basi che vanso!

El fosso pien de foie 

par dormire.

Sta pora vita

Sta pora vita, la go spesa male,

pian pian me son ligà co’ le cadene,

credeva la fusse un carnevale,

invesse l’è un inferno pien de pene. 

Briga e ramènete, sfadiga e struscia

sul più belo, te credi de sponsare 

e invesse i te compagna a Santa Lussia!

te poi far de manco de sperare.

I te conta, che ocore star boni,

se te voli ‘ndar drito in paradiso,

sonò ghe xe l’inferno coi demoni,

ch’i te buta in pignata come ‘l riso.

Go pensà che piutosto de cambiare, 

vado a l’inferno a farme cusinare.

Nèvega 

Nèvega

sora i vivi

e sora i morti.

‘Na man de bianco 

a sto luamaro.

Nèvega.

Dio

che ciaro!

‘Sta vita

‘Na procession che camina,

fata de ani passà,

de quei che vegnarà.

Sarpente pien de colori,

de musi veci e novi.

Speranse, sogni desfà.

Te çerchi sempre…

quel che no te trovi. 

Sparisse i musi veci,

nasse i musi novi.

Eccellente pittrice, stupendi alcuni suoi autoritratti: Donna con bibbia (occhi neri intelligenti, pensosa, quasi sovrapensiero: il colore della sua giovane bellezza; Donna con maschera (non è di carnevale: è lei che nasconde i suoi occhi, non vuole essere ferita e ci guarda attraverso la maschera che si è costruita per nascondere la sua interiorità; e allora sovviene alla mente questo: quando i turchi occuparono Bisanzio con le lance cancellarono gli occhi degli affreschi perché lo sguardo è la luce dell’anima).

Davvero un talento, Nerina Noro, artista di una città di provincia, Vicenza, che in fondo non l’ha mai capita. E come spesso succede, si recupera la memoria solo più tardi. Così, due anni dopo la morte, la mostra allestita in Basilica Palladiana al Salone degli Zavatteri – «Nerina Noro (1908-2002) – Il volto e la maschera» – dove finalmente si fecero conoscere le sue opere ad olio e le sue magistrali acqueforti. Un recupero della memoria che ne rivalutò il lavoro pittorico e grafico: coerente e fortemente se stessa, anche dietro i ritratti che non la raffigurano, ma in fondo parlano sempre di lei, del suo vissuto, del suo dolore, del suo essere donna e artista a Vicenza. Una retrospettiva curata da Giuliano Menato, che cosí la introduce nel catalogo (Agorà Factory editore, con un saggio del poeta Fernando Bandini): «Nessun artista vicentino della sua generazione – la più ricca di ingegni pittorici del Novecento, la più copiosa di risultati rilevanti – può vantare uno stile inconfondibile come quello di Nerina Noro, particolarmente affinato nel genere del ritratto, ritenuto da tutti il centro dei suoi interessi di donna e della sua ricerca di artista». Decisamente di carattere sanguigno, uno spirito anticonformista, questa poetessa, pittrice, incisore, insegnante nel vicentino.

Tuti che parla 

Tuti che parla de machine 

de fèmene, de schei.

E mi me godo

a vardare ‘na foia.

‘Na foia, che de matina 

presto, la sé lustra 

scura e imbrilantà.

Man man ch’el çielo 

cambia de colore,

la xe n’altra 

e n’altra ancora. 

Fin che riva la luna

col so slusegamento 

de pòlvare de argento.

Tuti che parla de machine 

de fèmene, de schei.

Notizia 

Nerina Noro è nata il 21 marzo 1908 a San Gallo in Svizzera. Trasferitasi con la famiglia a Vicenza, inizia la propria educazione artistica sotto la guida del padre, Francesco, pittore e perfezionandosi poi all’Accademia di Belle Arti di Venezia sotto la guida di Virgilio Guidi e Bruno Saetti, che la stimava molto. A Venezia incontra l’amore in Arturo Cussigh (1911-1990), definito in seguito il “pittore dei fiori”, per l’insistenza del tema che compare in moltissime opere ispirate alla bellezza della flora montana, 8che si inserì immediatamente nell’ambiente artistico nazionale frequentando artisti di alto livello come Carrà, Sironi, Soffici, Campigli. La loro storia finì però in maniera burrascosa, dopo un matrimonio e due figli. A testimonianza del loro amore – e odio – rimane il ritratto di Nerina, eseguito da Arturo nel 1936. In realtà, quello che è un ritratto di lei, in origine era un doppio ritratto. Determinata nell’eliminare ogni traccia del suo ex marito dalla propria vita, lo cancellò anche dal dipinto che li ritraeva giovani artisti spensierati e innamorati. Fin da giovane la Noro partecipa a importanti mostre d’arte nazionali: Bevilacqua La Masa (1936), Quadriennale di Napoli (1937), Biennale di Venezia (1938), impiegando le tecniche dell’affresco e una pittura in tonalità calde, con colori soffusi e assonanze della Scuola Romana in cui prendono forma i suoi molti ritratti e un mondo che sconfina nel simbolismo e nell’onirico. Bello che sia potuto accadere questo: che in una delle sue mostre, una serie di incisioni sulle farfalle, sia stata messa in relazione con la collezione di esemplari del figlio Francesco Cussigh, noto e stimato entomologo, dato che proprio per la passione del figlio Nerina include gli insetti nelle sue opere. Dopo le prime prove in lingua, la sua poesia “coltiverà” il dialetto: nel 1994 esce la raccolta Pòlvare de ala, curata da Giorgio Faggin ed edito da Neri Pozza, che comprende L’otuno xe drio partire (1960), I raionamenti de un imbriago (1985) e una sezione di Poesie inedite. Nerina Noro ha dialogato con i personaggi più rappresentativi della nostra cultura artistica e letteraria, privilegiando quelli più scomodi e singolari, come Goffredo Parise o lo stesso Neri Pozza.  Muore a San Giovanni in Monte (VI) nel 2002.

Note

¹ Maurizio Casagrande, Matteo Vercesi, Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila (Edizioni Cofine, 2014), dove Nerina Noro, tra i 16 poeti antologizzati, è l’unica donna inserita.

Glossario 

(in ordine di poesia)

Go fato: ho fatto;

garia: avrebbero; 

copare: uccidere

leie: legge;

sbarare: sparare;

‘ndaria: andrei.

gavemo: abbiamo;

fià: fiato;

gavìo: avete;

el ciaparà: prenderà;

s’inmucia: si ammucchiano;

ne basa: ci bacia;

scadenà: scatenate;

si n’acorsemo: ce ne accorgiamo;

co vien suso: quando si alza;

‘rente: accanto.

le so vose: le loro voci;

gnaro: nido;

desfà: disfatti;

go ciapà: ho preso.

un griso: un grigiore;

coerse (s dolce): copre;

fora: fuori;

a solaiarse: a prendere aria, sole;

n’ocià: un’occhiata;

fodra: fodera;

parsuto (s aspra): prosciutto;

gropo: nodo;

struca: stringe;

Piansendo (s dolce): piangendo;

catarli: trovarli.

Go tolto: ho preso;

basi: baci;

i se taca: si attaccano;

lavri: labbra;

desparà: disperati;

xola (s dolce): vola;

tole: prende.

El stradon de le Rassele: Il viale di Aracoeli;

stramassi: materassi;

Tacà le piante: attaccati alle piante;

se gera rancurà: si era protetti, raccolti;

vegnèsse: salissero.

Sa go: se ho;

raise: radici;

çarvelo: cervello;

s-ciopo: schioppo, fucile;

ca vanso (s aspra): che avanzo;

foie: foglie.

ramènete: arrabattati;

sfadiga: fatica;

strussia: logorati;

sponsare: riposare;

a Santa Lussia: al cimitero;

I te conta: ti raccontano;

pignata: pentola;

cusinare: cucinare. 

luamaro: letamaio.

che vegnarà: che verranno;

musi: visi;

Sparisse: spariscono;

nasse: nascono.

schei: soldi;

vardare: guardare;

slusegamento: luccichio.

Nell’immagine di copertina: particolare dell’acquaforte di Nerina Noro “Il sabba delle streghe”.

Articolo gentilmente concesso da https://www.remweb.it/

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