Inaugura la Biennale Arte 2024, con l’edizione sessanta, e avrai tempo di andarci fino al 24 novembre. Venezia può essere afosa, persino insostenibile nella giornata sbagliata. Ti ricordo, inoltre, di verificare il calendario dei giorni a pedaggio, prima di ritrovarti un’Alice nel Wonderland delle gite al tempo delle alluvioni da turismo. Venezia è unica, come declama il tagliando per il trasporto pubblico. Unica, ma non ci vivrei, siamo sempre lì. La Biennale è comunque sempre nuova, anche se poi tanto “biennale”non è, ma annuale, nel rilancio tra Architettura ed Arte. Questo 2024 è per l’arte.
Se l’adagio si stabilizza nel “si vede più architettura alla Biennale Arte che in quella dedicata”, non saprei, dato che oggi fare architettura è tanta roba, mica solo portare il progetto del nuovo quartiere fieristico o il restyling del lungomare dove andavo da piccolo coi miei. Architettura è società, progetti di rinaturalizzazione, de- urbanizzazione, pertanto uno sforzo collettivo e fantasioso per “ripensare la società”. Perché ti parlo di architettura alla Biennale d’Arte, dici? Semplice. Se, rispetto all’architetto che si fa radar delle esigenze e delle funzioni del presente, con un’analisi che ascolta e rilancia, l’artista tout court, invece, dovrebbe disegnare e anticipare il futuro, ciò che saremo e dove andremo. Un misto tra il pensiero, talvolta sibillino di Eraclito, e il folle che sussurrava a qualcosa (sembra che questo genere di titolo vada per la maggiore). L’artista è tante cose, ma prima di tutto è un imprenditore dell’effimero e un individuo dal pensiero creativo (con sviluppo della sfera sinistra del cervello). A dispetto degli altri umani fermi nel loro utilitarismo + hobby, penso a chi sta allo sportello della banca ma vorrebbe pubblicare il suo libro, l’artista è colui al quale affidiamo una sorta di visione, di strada alternativa. Lui può, insomma. Questa Biennale Arte, curata da Adriano Pedrosa, prima nella presidenza di Pietrangelo Buttafuoco, porta il suggestivo titolo di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, che per assonanza richiama alla mente il libro di don Antonio Sciortino, dalla forte vocazione dorotea, “Anche voi foste stranieri”.
Il curatore Pedrosa fa sapere, piuttosto, che Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere è tratto da una serie di lavori, realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. “L’espressione è stata a sua volta presa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni Duemila combatteva contro il razzismo e la xenofobia in Italia”. Scritte che replicano al neon la traduzione simultanea di “Stranieri Ovunque”, levitante a pelo d’acqua sotto la sconfinata tesa per il rimessaggio dell’Arsenale di Venezia, faccia a faccia al padiglione italiano. «L’espressione Stranieri Ovunque – spiega Adriano Pedrosa – ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri». Nacque straniera l’architetta Lina Bo Bardi, da Roma naturalizzata brasiliana. Progettista dell’iconico Masp di São Paulo, di cui Pedrosa è direttore artistico dal 2014, Bo Bardi riappare all’Arsenale nel boulevard espositivo, con i suoi iconici “Cavaletes de vidro” a farsi supporto delle opere degli artisti italiani che nel Novecento migrarono nel latino America, per cercarsi la fortuna. Nomi molto spesso poco o per nulla conosciuti in patria, ma che testimoniano della non confinabilità del fatto creativo.
Già varcare le soglie di una Biennale con questo titolo, richiede uno sforzo contro il pregiudizio. Uno su tutti, il sospetto che si riveli una continuazione di quel fenomeno statunitense di riscrittura della realtà del passato, ad uso del consumismo (presente). Qualcosa che suona un tantino rabbioso e inopportuno per chi, suo malgrado cresciuto nell’eurocentrismo, fa della stratificazione, ovvero della comprensione di ciò che il tempo lascia, ad un vero e proprio paradigma della tolleranza. Che nessuno si senta offeso se anche l’Europa ci tiene alla sua vetrinetta di ricordi! Negarli o riscriverli gracchia nel ragionamento, come il paradosso del mentitore.
L’impressione di chi vi scrive, è che si parli di una Biennale che deve rimanere nel presente, o guarda ad un passato esperienziale, propedeutico al presente. Se il passato del mondo è gigantesco, talvolta ingombrante, il presente non appare meno intricato. Di questa ottima scusa per stagnare nell’immobilismo morale, noi italiani ci rendiamo garanti, almeno nella nostra sfera pubblica, perpetuando il “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”di gattopardesca memoria. Basterebbe il ponte sullo Stretto a farsi metafora del nulla (e dello spreco) al quale ci siamo autocondannati. Una delle tante fiabe che aspettano solo di riempire un padiglione della futura Biennale e che nulla ha a che fare con lo sviluppo sociale di un paese.
Rimanendo nel pregiudizio, la Biennale Arte nelle due sedi maggiori (Giardini e Arsenale), all’inizio olezza di Expo2015, dove i grandi temi universali sembrano più un adattarsi per forza ad un “cerchiamo il senso di essere straniero” e in qualunque argomento, così, tanto da non finire fuori tema, piuttosto che un collettivo ragionamento sulla direzione da prendere. Ma è una sentenza crudele, va scalfita via al gonfiarsi dei piedi. Espongono paesi approdati alla Biennale in tempi relativamente più recenti, che creano librerie di memoria per ricordare cosa sia e sia stato il colonialismo, come l’elegante “The Museum of the Old Colony” di Pablo Delano per Porto Rico, che sostiene le storie e le lotte delle comunità latinoamericane.
Il grande padiglione Biennale, riesce a raccogliere a sé artisti, percorsi o esperienze artistiche dove emerge, spesso con opere “formato cavalletto” o da fiera d’arte, quella variopinta massa di diseredati, confinati, mal tollerati rappresentanti della società mondiale odierna: quella che fa muovere capitali e imperi del male, dittatori, succubi di pregiudizi, razzisti, omofobi, indemocratici, delusi, irrealizzati e altre delizie junk. Una massa, numericamente parlando, ma troppo spesso “estraniata” per condizione accettata, nella società del “io sono più uguale di te”. Per vocazione, casa Biennale è un carosello di variazioni sul tema dello straniero che farebbe sentire fuori luogo chiunque non se ne faccia una ragione d’esser parte di almeno uno tra quei gruppi. Trovi la “straniera” Aloïse, confinata in un ospedale psichiatrico svizzero. Trovi il performer non binario e mussulmano. Vedi premiata l’artista argentina trans La Chola Poblete, narratrice di una storia coloniale da una prospettiva trans-indigena. Vedi premiata la fatica del Mataaho Collective, formato dalle artiste māori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, che offrono il benvenuto all’ingresso dell’Arsenale con la Cappella Sistina degli Intrecci primordiali.
Altri “stranieramenti” sono le operazioni memoria che revocano l’ancestralità, alberi disegnati dai molti rami esili, che vengono capitozzati senza pietà in un giorno, dall’arrivo dei nuovi padroni di casa. Ciò vale per il Padiglione Australia, Leone d’Oro per la miglior Partecipazione Nazionale, dove Archie Moore propone l’ampia installazione in B/N “kith and kin” , per denunciare come gli antichissimi nativi australiani rimangano nella persecuzione. Vi è il “blocco nordico” con i Danesi che espongono un ampio reportage sulla Groenlandia, del fotografo Inuuteq Storch, da non guardare con gli occhi del turista, ma quale luogo di normale vita. L’altro messaggio intrinseco è che l’acqua della loro terra ci arriverà in casa, se non ci daremo una regolata. I finlandesi, con la fiaba collettiva The Pleasures We Choose, offrono una speranza al mondo, con architetture sostenibili in bambù gigante e fiabeschi personaggi pesce che ti invogliano ad andarci a vivere, il tutto artisticamente condiviso tra le artiste Pia Lindman, Vidha Saumya, Jenni-Juulia Wallinheimo-Heimonen, i curatori Yvonne Billimore e Jussi Koitela e la designer architetto Kaisa Sööt.
La Francia ti porta nell’esperienza immersiva e zuccherosa di Julien Creuzet e della Martinica, proponendo una foresta immaginifica dove il sintetico la fa da padrona. Un’installazione pronta per essere rimontata nella prossima sfilata di Dior. I Giapponesi, nel cui spazio si entra sempre come in una visita al tempio all’angolo, esprime un rattoppo, reinventato artisticamente da Yuko Mohri creando artificialmente delle perdite da riparare, utilizzando oggetti domestici comuni presenti in loco, per costruire una scultura cinetica. Si passa per Israele, paese che la curatrice Ruth Patir chiude per protesta tra le pressioni ricevute dai vari collettivi pro Palestina. Se non fosse per le tragedie in atto, ci sembrerebbe una situazione “Biennale da manuale”, oltre alla presenza massiccia di (veri)militari, che rimanda alle passeggiate dei turisti a Gerusalemme.
Tra le interpretazioni fuori dal coro, certamente l’Uruguay, dove l’artista Eduardo Cardozo, in “Latente”, dialoga meravigliosamente con Tintoretto. Due stranieri l’uno per l’altro uniti dalla forza senza confini (e senza tempo) dell’arte. È forse più straniero un uruguayano che espone a Venezia, o un maestro veneziano esposto in un museo straniero, senza il contesto che diede luce a quell’opera? Non è il vero tema del padiglione, ma tanto vale chiederselo. Il tema della cattività dell’arte è sempre attuale, ricordando la diatriba Grecia-Regno Unito per la restituzione del fregio del Partenone.
E proprio la Gran Bretagna, con l’ampia installazione “Listening All Night To The Rain”, dell’artista e cineasta John Akomfrah, realizza un’operazione che si fa manifesto dell’ascolto, come forma di attivismo. A pochi metri dall’UK, la Germania offre “Thresholds”, un’esplorazione della storia e del futuro in tre scenari: Yael Bartana parte da un presente catastrofico; Ersan Mondtag, regista d’opera, frammenta la monumentalità del padiglione di marmo. Il terzo scenario (non qui, ma all’isola della Certosa), vede gli artisti Michael Akstaller, Nicole L’Huillier, Robert Lippok e Jan St. Werner creare uno spazio che celebri l’importanza del momento.
Spiegare la cattiveria gratuita di una società anche ai bambini? Perché no. Ci pensa la Repubblica Ceca (vedi al padiglione “Cecoslovacchia”), e fa bingo! Il suo “straniero”eccellente è la giraffa Lenka, nella sua breve permanenza (da viva) in uno zoo del paese, correva l’anno 1954, scelta come la martire degli animali del sud del mondo alla mercé delle gitarelle famigliari. Lenka muore di lì a breve e il suo corpo rimane esposto fino al 2000 al Museo nazionale di Praga. Eva Koťátková interpreta la triste storia della giraffa catturata in Kenya come portatrice di una nuova narrazione artistica, trovando similitudini tra il lungo collo a tubo dell’animale, e le tubature della città, dove gli scarti del malcapitato sono entrati in circolazione (non è escluso che li stiamo bevendo mischiati ai Pfas). Compassione e bellezza, a memoria di quei tanti animali migranti che capitolano nella futilità del baraccone cittadino.
Fred Kuwornu, con “We Were Here”, documenta al cinema la storia dei neri africani nel Rinascimento europeo. Residente a New York, l’artista e attivista italiano afrodiscendente, ha realizzato un documentario da mandare al pubblico di RaiStoria, che analizza le sfumature di tolleranza nelle tante città europee toccate dall’entusiasmo rinascimentale. Altro capitolo è l’arte che interpreta le sottoculture dell’omosessualità, da quelle Queer ai movimenti underground, raffigurate dalla voglia di prendersi in giro o amplificando le esperienze personali. Dean Sameshima o Louis Fratino (artista per la verità conosciuto nel mondo del collezionismo), sono contemporanei che si confrontano in diretta con il nostro De Pisis, che dal Novecento rammenta quanto siano lunghi i percorsi di liberazione delle comunità.
L’Arsenale stimola altri scenari, con l’Italia che offre a Massimo Bartolini il coronamento della sua maturità artistica, coadiuvato dalla curatela di Luca Cerizza. Gli spazi smisurati alle Tese delle Vergini accolgono tre ambiti di una stessa narrazione, dove l’ascolto diventa il cuore dell’idea, tanto da poter definire quest’opera uno strumento musicale vero e proprio. Ci sono espressioni dell’Italia, come il giardino formale costituito da tubi innocenti, con tanto di fontana fluttuante (una firma dell’artista); c’è il minimalismo di una canna d’organo dove siede un Bodhisattva, e il suono di lievi carillon amplificati da questa tubolare perfezione geometrica. Il giardino esterno è il luogo del fare arte, con un calendario di restituzioni artistiche che non lesinano riferimenti agli Orti Oricellari di Firenze, memoria di un’Arcadia che si rigenera.
Dirimpetto all’Italia la Repubblica Popolare Cinese, il grande spazio di archeologia industriale, è offerto ai curatori Wang Xiaosong e Jiang Jun per coordinare un team di artisti. La Cina vuole documentare e organizzare la propria storia artistica, con un atlante che, attraverso antichi grafemi, crea un’opportunità di dialogo, di comunicazione, pertanto di comprensione reciproca. L’obiettivo dichiarato è di raggiungere una“armonia senza differenza”, partendo dal riordino delle cose di casa. Ogni scena, ogni luogo, immaginiamolo condito di festicciole, di danze e di costumi. È il compleanno di Jep Gambardella che mischia i mariachi al balletto estivo. Ma è il mondo in cui viviamo, animato dal folklore e dal pensiero alto, da mode e da elucubrazioni accademiche. Qui trovi i santi e i peccatori, i martiri e i gladiatori.
Molte sono le interpretazioni, i livelli di lettura e le suggestioni che anticipano una Biennale partecipata da 331 artisti e collettivi che vivono in almeno 80 paesi. “artistƏ” equivale pertanto a farsi straniero, viaggiatore, apolide, come un’ape che viaggia raccogliendo il polline di molti fiori diversi, e lascia un seme del proprio passaggio. Il presente di questo costruendo archivio di nuova memoria offre poche visioni e tante piccole esperienze, certamente speranze, con un occhio dallo spazio capace di captare le innumerevoli avventure che affollano la crosta terrestre. Non si mietono soluzioni, ma si stimola la coscienza in un continuo chiedersi “dove stiamo andando” e “cosa abbiamo imparato”. Andateci.
FOTO: PPM