MEREDITH MONK AL TEATRO OLIMPICO – UNA RECENSIONE

Whoa, sono una donna felice, sono una donna felice… Inizia così l’ultimo brano prima dei bis. È l’unica delle “Cellular Songs” ad avere un testo. Con lo svolgimento del pezzo, la parola “felice” viene via via sostituita da “affamata”, “dolce”, “impertinente”, “addolorata”, “fortunata”, “calma”, “arrabbiata” e altre descrizioni, prima di tornare a “felice” alla fine. Mentre lei ripete la melodia, le esperienze di otto decadi di vita di una donna complessa, scorrono sul suo volto espressivo.

Descrivere cosa è accaduto nei 70 minuti di performance sul palco dell’Olimpico la sera del primo maggio è qualcosa di estremamente difficile. Quasi impossibile farlo a parole. Meredith Monk d’altronde usa la voce, non la parola. Dal primissimo istante, giungono oscillazioni attorno ad un punto di equilibrio come onde impetuose. Questo non è un concerto. Monk è abitante del nostro stesso pianeta ma non è come noi. O siamo noi che non ci siamo mai percepiti come lei. La reazione che ottiene la sua arte è qualcosa di trascendentale. Risveglia nell’intimo un collegamento con il “per sempre” che racchiude folgori di comprensione del senso del tutto. Questo non è uno spettacolo. Monk danza la voce e tace sui significati perché non spiega ma suggerisce, apre la Kundalini e sublima il qui ed ora in una piroetta del destino. Questo non è un balletto. Eppure ci par di muoverci anche noi, lenti, oscillanti, inebriati da qualcosa che si respira come tangibile. Danzare non vuole affatto dire muoversi. Eppure questo, ancora, non è qualcosa di definibile. Il lavoro che Meredith Monk porta avanti da così tanto tempo non ha, di fatto, tempo perché non è “nel” tempo ma è “del” tempo.

Quando nel 2012 uscirono i due volumi “Monk Mix” in cui uno spettro assolutamente eterogeneo di artisti rimetteva mano al lavoro di Meredith, fu evidente come l’opera monkiana fosse materia plasmabilissima da tutte le correnti avanguardistiche e al contempo dalle forme più risolte e simmetriche della canzone. Già ci fu l’epifania portata da DJ Shadow che con “Midnight In A Perfect World” aveva fatto ascoltare Meredith Monk a inconsapevoli moltitudini. Nei due “Monk Mix” c’era invece il gotha dell’intellighenzia rock e dintorni. Lee Ranaldo, Caetano Veloso, Ryūichi Sakamoto, DJ Spooky, Vijay Iyer, Arto Lindsay e poi Bjork, ovviamente Bjork. Perché forse nessuno come l’eterea islandese ha cercato di portare la lezione di Monk nel mondo pop. Un pop lambiccato, artisticamente ambizioso, sghembo, trasformato e trasformante, ma pur sempre pop. E la versione di “Gotham Lullaby” (in un mondo ideale un brano da primo posto in classifica ovunque) di Bjork fece conoscere l’arte di Meredith Monk ad un pubblico estremamente più vasto di quello della sempiterna nicchia.

I dischi di Meredith Monk sono tutti mediamente di altissimo livello. Alcuni sono straordinari (Dolmen Music, Mercy, Songs Of Ascension) ma anche negli episodi meno acclamati la qualità è sempre molta. Ma nessun ascolto rende quel che Meredith Monk è. E lei è nella performance. Vederla dal vivo è l’unico modo per capirla davvero o almeno per cercare di poterla capire davvero. L’essenza del lavoro di Monk è un attitudine all’esistenza, un essere, o per meglio dire un esserci, heideggerianemente. Tocca un intimo ancestrale e ti investe di nuova luce e prospettive. I campi elisi molto probabilmente echeggiano la sua musica. Ti muove al pianto in maniera naturale, terapeutica, come il pianto di un infante, che respira aria e vita per le prime volte. Il suo spirito zen, il suo corpo esile, la giocosità di alcune sue scorribande vocali, il dilaniante cordone ombelicale con un tutto panteistico. Vedere Meredith Monk dal vivo è entrare in contatto con la dimensione dell’assoluto. Averla vista al Teatro Olimpico, supportata dall’essenziale quanto prezioso lavoro alle percussioni di John Hollenbeck, è stato qualcosa di ancora più grande e deflagrante. Vien voglia di rimanere in silenzio.

Il concerto di Meredith Monk è stato il preludio del 77esimo ciclo di spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza, con la direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli.

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