C’è una voce piccola nel mio cervello mentre sorseggio un cappuccino al Moraro, periferia di Vicenza. Quasi un sussurro. Mi dice che devo scappare. Infilarmi le scarpe e andare sotto pioggia, sole, neve e persino grandine. Fermarmi in posti che sanno di ferro, vino e roba fritta. Lavarmi di notte alle stazioni di servizio di qualche pianura sperduta, quei distributori che hanno la canna d’acqua verde a strisce gialle sempre in funzione, sempre attaccata al rubinetto. Ne sono rimasti pochi? Non importa, li troverò di sicuro.
Lascio in un cassetto della scrivania, in una casa – che potrebbe poi ridursi in macerie per terremoto e/o tritolo, oppure che potrebbe essere venduta, pignorata, occupata, saccheggiata – le mie protesi elettroniche. Sottospecie di ombelico in cancrena che mi tiene legato al mondo dei desideri. Che è sempre peggio del malaffare, della birra consumata con la schiena appoggiata al muro di un ponte, mentre dal fiume sale il profumo fetido di fogna. E lo combatti con i Clash che ti salgono in testa e con un biascichio fumoso con un amico. Incredibilmente seriale tanto da risultare perfetto.
Quante colazioni ci siamo persi? Leggere giornali in lingua francese alle 5 di mattina in una baracca canadese? Non l’abbiamo mai fatto, ma tu hai scoperto il dolore e la noia del mediterraneo, hai scoperto che tra le due cose la differenza è talmente sottile da non valere un progetto metafisico o una filosofia buona per l’inverno, quando passi a trovare i parenti e senti il familiare profumo della naftalina negli armadi. Si tratta di vita e di come la vivi, di come ti senti quando non hai nessuno e quando non ti senti nessuno.
Allora. Se tutto questo è possibile, possiamo leggere insieme la cronaca nera. E tu potresti adirarti per tutti gli anni di soprusi di tutti i maschi verso tutte le donne. E quella spirale di violenza maschilista che traspare dalle pagine del giornale ti potrebbe mettere di pessimo umore, potrebbe diventare un buon motivo per risollevare colpe ataviche del genere maschile, potrebbe succedere mentre siamo di fronte ad un cappuccino al Moraro, come se fossimo seduti al tavolo del grill di un’autostrada deserta.
E magari la nostra storia finirebbe lì, così. Come è già successo. Ed allora mi farò un bagno sublime nel sudore del mio cuore spezzato. Assaggerò di nuovo il fiele della paura e della solitudine. Combatterò ancora i miei demoni gobbi. I mutaforma nascosti in quelle colline fetide e misteriose che sembrano proiezioni di matrici di buchi neri, più che realtà. Più che realtà, più della fottuta realtà cazzo. Quella specie di lotteria, quelle variabili affidate al caso o usate come alibi di un dovere. E mi immagino lontani, ma senza rimorsi. Forse tu in attesa della mia cartolina con gli auguri di buona pasqua. Perché a me piace la pasqua. E quando arriva metto sempre su Easter di Patti Smith sul mio vecchio piatto. E da te, mi arriveranno due righe, con le quali tu mi chiederai aiuto per una brutta storia. Allora ci ritroveremo. Ed il giorno che finalmente finirà tutto questo nel mondo, andremo in collina. A dare di nuovo fiori di gelso ai cavalli.