SI FA PRESTO A DIRE AFRICA

Per la maggioranza di noi la parola Africa è sinonimo di migrazioni e arrivi continui sulle nostre coste di disperati dalla pelle nera o, al meglio, nocciola, cui guardiamo con sentimenti che oscillano, a seconda delle nostre convinzioni, tra la paura e la pietà. Il direttore di «Limes» ben descrisse, qualche anno fa, questo atteggiamento occidentale e in particolare italiano nei confronti dell’Africa, definendolo «strabismo di Venere, distante e autocompiaciuto come nel quadro di Botticelli». Uno strabismo che che dà luogo a due distinte rappresentazioni geopolitiche: «La prima immagina quello spazio sideralmente lontano: dagli occhi, dal cuore, dalla mente. Ininfluente. Al meglio, esotico. L’altra, oggi prevalente, talvolta ossessiva, lo designa incombente minaccia. Trampolino dell’invasione aliena che travolgerà la nostra civiltà». Nulla è più distante di questi due stereotipi dalla realtà attuale dell’immenso continente dal quale ci divide solo un braccio di mare nostrum, che a Pantelleria si riduce a 70 chilometri di larghezza.

Difficile è riassumere in breve le complessità dell’Africa moderna, dove le opportunità sono grandi tanto quanto i problemi e probabilmente di più. La sola certezza è che con questa terra vicina e sconosciuta dobbiamo e dovremo fare i conti, dato che molto del nostro futuro dipende da lei. Perché? In estrema sintesi per tre ragioni: le sue risorse naturali, la sua giovinezza e il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, visto che gli equilibri geopolitici del nostro pianeta stanno mutando ogni giorno, spesso drammaticamente. Cominciamo dalle risorse naturali pregiate: il continente africano è ritenuto il più ricco al mondo per numero e qualità di materie prime, tra cui sia quelle “classiche” – petrolio, gas naturale, carbone, uranio, radio, cromo, cobalto, ferro, rame, zinco, bauxite, antimonio, litio, fosfati, oro, platino e diamanti – sia le cosiddette “risorse del futuro”. Un esempio tra tutti è il tantalio, metallo raro indispensabile all’industria dell’elettronica. Tanto per dirne una, sono fatte di tantalio le SIM cards dei cellulari. Uganda, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo sono i maggiori produttori mondiali di questo ambitissima polvere metallica. Non è quindi un caso che la Cina stia da tempo cercando di lanciare una sorta di OPA neocoloniale su questa parte dell’Africa centro-orientale.

Aggiungiamo il fattore demografico: gli africani sono tanti e sono giovani. Il miliardo e quattrocento mila abitanti attuali del continente è destinato a raggiungere i due miliardi e mezzo nel 2050 secondo le Nazioni Unite. E tra meno di ottant’anni, cioè nel 2100, gli africani supereranno i quattro miliardi e rappresenteranno un terzo della popolazione mondiale. E la loro età media è di 18 anni! Fin da oggi bisogna abituarsi a fare i conti con questa realtà, che è destinata a spostare i baricentri del pianeta cui siamo avvezzi da secoli: quello politico e sociale così come quello economico, commerciale e culturale.

Per comprendere appieno il valore di questi dati demografici basta compararli con altre due cifre: l’età media europea è aumentata di 2,3 anni nell’ultimo decennio, fino a raggiungere i 44,5 anni. E l’Italia è il Paese più anziano d’Europa con i suoi 48,4 anni medi. In sostanza, questo significa che da un lato viviamo un inverno demografico drammatico, del quale si parla troppo facendo poco. Dall’altro invece prospettive luminose di crescita: giovinezza significa infatti innovazione, forza lavoro, potenziale creazione di nuova ricchezza, assistenza sociale e rinnovamento. In una parola: futuro.

Per non sparire, noi Europei sempre più vecchi d’età e poveri economicamente, avremmo bisogno della giovane energia africana e potremmo, d’altro canto, condividere con l’Africa il nostro secolare know-how tecnico, scientifico, artistico. Il filosofo Massimo Cacciari ha detto di recente che solo i demagoghi non si rendono conto (o non ammettono) che «Europa e Africa tra qualche decennio saranno una cosa sola». Infine, dovrebbero diventarlo tanto più se si considerano i fragili equilibri mondiali attuali. L’Europa assiste, pressoché impotente, a due rischiose guerre alle sue porte, una a est e l’altra sulle rive del Mediterraneo. In parallelo, gli Stati Uniti, suoi tradizionali alleati e “controllori”, potrebbero, dopo le prossime elezioni presidenziali, abbandonarla senza remore al suo destino. In parallelo, a oriente due giganti – India e Cina – stanno acquisendo un peso specifico, economico e politico, sempre più rilevante sulla bilancia globale. Per non diventare una serie di «piccole province povere alla periferia del mondo» (la citazione è ancora di Cacciari), le vecchie nazioni europee dovrebbero percorrere due strade: la prima è unirsi davvero e non solo a parole o «patti di stabilità», la seconda è riprendere un dialogo unitario, forte e rispettoso con l’Africa, rilanciando quel progetto che decenni fa un africano lungimirante – Léopold Sédar Senghor – definì «Eurafrique».

Ben lontana dal vuoto Piano Mattei proposto come fiore all’occhiello dall’attuale governo, la visione eurafricana significherebbe lavorare insieme per unire risorse da un lato e competenze dall’altro e guardare al futuro in maniera consapevole e congiunta. Tra i molti benefici di questa alleanza ce n’è uno che oggi preme sottolineare: il controllo congiunto del citato mare nostrum, che resta una delle vie cruciali di scambio tra le varie parti della terra e rischia, se abbandonato, di ridursi a un campo di battaglia metaforico o, ahimè, letterale.

Ciò che servirebbe è un’Europa più forte che da un lato si apra al mondo parlando con una sola voce e dall’altro offra piena autonomia ai suoi territori, ciascuno dei quali ha una propria storia e una propria, peculiare vocazione. In questa prospettiva, immaginiamo per un istante le immense possibilità che il nord-est, non più imbrigliato dal controllo centrale di uno stato-nazione in affanno, potrebbe costruire attraverso un dialogo diretto con alcuni territori africani. E facciamo un solo esempio per illustrarlo: una delle eccellenze riconosciute di questa regione è il settore agro-alimentare. Qui esiste una capacità secolare di coltivare la terra, ricavarne prodotti di qualità, confezionarli, distribuirli e venderli. Una delle chiavi dello sviluppo futuro dell’Africa è proprio l’agricoltura. E la prima cosa da fare per gli africani è imparare le competenze necessarie per renderla un settore redditizio. La complementarità di saperi e bisogni mi sembra un’evidenza. E molte altre prospettive concrete si potrebbero aggiungere a questa. In conclusione: no, l’Africa non è un luogo del mondo al meglio «esotico» e, al peggio, «minaccioso». È una variabile imprescindibile del nostro avvenire. E stabilire se tale variabile diventerà un’opportunità o un rischio dipende in buona misura da noi.

Francescomaria Tuccillo è stato per anni dirigente di grandi gruppi industriali.
Dopo un avvio di carriera come penalista e avvocato d’affari, nel 2003 è stato nominato advisor dell’Autorità Provvisoria di Coalizione che ha amministrato l’Iraq dopo la seconda guerra del Golfo. Ha poi vissuto dieci anni in Africa, a Nairobi, dove ha lavorato dapprima come imprenditore e poi in qualità di direttore della regione sub-sahariana per il maggior gruppo italiano di aerospazio e difesa. Il suo ultimo libro “Si fa presto a dire Africa” è stato finalista al Premio Cerruglio (presidente di giuria Alan Friedman). Tuccillo vive a Verona e collabora, tra l’altro, con diverse realtà vicentine. L’Europa, l’Africa e la costruzione di un dialogo paritario tra loro sono al centro del progetto politico che il nuovo movimento Base Popolare sta disegnando e intende promuovere.

Il libro sarà presentato domani, 18 aprile, presso il castello di romeo a Montecchio Maggiore, in via Castelli 4 Martiri alle 18.30.

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