SMEMORIE DI GUERRA

C’era una volta la Seconda guerra mondiale. In un tempo non così lontano le bombe degli Alleati tuonavano sulle nostre città. C’erano una volta la dittatura, le battaglie, la fame più nera, l’indigenza e una speranza sepolta da rovine di mura medievali. Nel soldato del ‘40, come in quello del ‘17, ogni eroico sentimento guerrigliero, ogni entusiasmo era destinato a svanire faccia a faccia con una cruda realtà. La disperata percezione della labilità umana faceva apparire la guerra nella sua essenza: era solo un modo per finire prima sotto terra. L’esperienza dei primi due conflitti mondiali segnò tragicamente l’Europa del ‘900, che porta ancora con sé le ferite aperte nel più cruento scontro della Storia. Testimonianze ed espressioni di quel trauma si rintracciano nell’arte, nella filosofia, nella letteratura contemporanea e soprattutto nell’animo dei comuni mortali che la guerra l’hanno vissuta. La pace giunse nel ‘45, non per tutti. Strascichi di violenza tormentarono l’intero secolo, non smettendo di influire sul nostro presente. Proprio così, oggi si parla di guerra: un’inquietante guerra a pezzi che si combatte in giro per il pianeta.

Pace mondiale e disarmo diventano termini ancor più inattuali guardando alla spesa europea e italiana per la difesa, ossia la produzione, stoccaggio, vendita di armi e altri ordigni di distruzione. Senza contare i recenti sviluppi, l’Unione Europea ha spesso tradito l’ideale di pace da cui è nata e che si pone come fine, diventando uno dei più importanti fornitori d’armi del pianeta. Dal 1998 al 2020, l’UE ha venduto beni ed equipaggiamenti militari per un valore di 256 bilioni di euro ad altri paesi, dall’Arabia Saudita all’India. Alla cinica volontà di export nel frattempo si affianca l’idea di aggiungere qualche carro armato in più alle nostre fila. C’è ora una certa esigenza di sicurezza a cui l’Unione intenderebbe assolvere con un incremento dell’apparato bellico, nell’ottica in cui essere armati fino ai denti è garanzia di intangibilità. La nostra spesa militare non sfiora nemmeno lontanamente i picchi statunitensi, eppure cresce costantemente in tutta Europa (per l’Italia nel 2024 è previsto un aumento del 5,5% rispetto al 2023) e diversi gruppi europei ne intendono fare un cavallo di battaglia per le incombenti elezioni.

Siamo sempre stati abituati a sentir parlare di armi, conflitti, genocidi, stermini, dittature incontestate, attentati, impiccagioni che avvengono in luoghi “lontani” e rispetto ai quali neanche l’ONU ha possibilità di intromettersi con successo. Davanti a questi abomini proviamo una sorta di pietas per quei barbari che fanno ancora la guerra. Qualcosa è cambiato ora che sono in corso due conflitti finalmente degni dell’attenzione collettiva. Nell’irrequietezza, ci si dedica allora un malcelato gioco di schieramento intellettuale, ma mentre noi facciamo i conti col bilancino per comprendere di chi sia la colpa e discernere i buoni dai cattivi uno per uno, la guerra va avanti. Si discute sulle armi da inviare, sulle dichiarazioni dei vari leader, su possibili scenari apocalittici spesso dimenticando cosa è “guerra”. Sotto le bombe si ragiona certo in maniera meno lucida. Senza luce, cibo, acqua, tra macerie di morte il primo pensiero è la speranza che l’incubo finisca. Gli interessi geopolitici in gioco, le tattiche militari, la sconfitta del nemico e tutto il seguito della retorica bellica cadono nel buio. Quando mancano gli uomini e si è circondati da amici e parenti morti, si leva un solo grido lacerante: basta. La guerra è un fuoco che divampa, brucia, divora e non lascia nulla. Solo tempo dopo, guardandosi alle spalle e pensando alle ceneri dei caduti, si comprende che il sacrificio della vita di un soldato o di un civile non è solo il prezzo da pagare ma anche il primo esito assicurato. La guerra è morte fine a sé stessa e l’Europa la ha conosciuta; forse abbiamo la memoria corta. Il relativo benessere attuale fa sembrare un brutto sbiadito ricordo la condizione di quell’Europa in guerra. Ecco che allora una breve lezione di storia può apparire utile, oltre che interessante: quel passato, certamente distinto dalla situazione contemporanea, ha ancora qualcosa da dirci.

L’800 dei grandi ideali che hanno fatto le rivoluzioni, o viceversa, fu un secolo ottimista: lungo e pacifico. Pacifico sì, ma non perché privo di guerre. La peculiarità di quest’epoca sta nell’essere punteggiata di conflitti che non coinvolsero la popolazione direttamente, a combattere erano gli eserciti e a morire in battaglia i soldati, il che è tutt’altro che scontato. Numerose schiere di volontari prendevano le armi e si fronteggiavano combattendo per la libertà, per denaro, per qualunque fosse il loro credo. Sceglievano di farlo. L’Europa ottocentesca conobbe povertà e sfruttamento, ingiustizie e vessazioni da molteplici sorgenti ma mai la falce della guerra calò nelle città a mietere intere generazioni. Fu alla tarda fine del secolo, individuata da Hobsbawm nel 1914, che gli uomini dimentichi della miseria della guerra la elevarono a ideale. Così accanto all’altare della giustizia se ne eresse nuovamente uno al combattere per la nazione, ovvero per la difesa della propria identità. In questo contesto, la guerra tanto invocata non era contro un oppressore singolo o una casta al potere. Il nemico era un gruppo sociale etnicamente omogeneo, con determinate caratteristiche, identificabile in un popolo diverso. Ecco il nemico ed ecco una buona causa: in nome di libertà e giustizia ogni guerra diventa giusta. Quest’ubriacatura di massa del popolo entrante nel nuovo secolo includeva impetuosi nazionalisti, interventisti, potenti capi di Stati nazionali con non irrilevanti interessi economici e una generale volontà di regolare i conti e fare un po’ d’ordine nella vecchia Europa.

Abbagliati da scintillanti ideali, ambizioni espansionistiche e di consolidamento, si trovarono poi tutti impantanati nella Grande Guerra. E mentre la fanteria moriva con gli stivali nel fango gelido della trincee, nuovi rancori mettevano radici e lunghe ombre si distendevano all’alba del 1918. Un inizio tutt’altro che promettente di cui conosciamo il rivoltante esito. Oggi quasi 100 anni dopo, noi abitanti dell’Europa-quasi-unita siamo un lontano riflesso del malaugurato clima di fine ‘800. Vi sono sì certi discrimini non da poco: non si intravede all’orizzonte il fantasma del fascismo storico, ormai morto e sepolto, e nemmeno dobbiamo aspettarci i medesimi eventi che si ripresentano sotto le medesime spoglie. In altre parole, scrive Mark Twain, la Storia non si ripete, ma fa rima. A fronte di uno scenario tale possiamo rispondere alla banale antica follia umana con un’altra idea non nuova. Anche se pensiamo non ci riguardi perché siamo così civili e democratici, serve la forza di ripudiare la guerra. È un rifiuto non tanto aprioristico quanto ragionato, vuol dire rinunciare a farsi trascinare dagli eventi come sonnambuli e scegliere di percorrere altre vie che possano condurre davvero verso un futuro.

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Alla fine di febbraio sono state già raccolte 12.000 firme per escludere Israele dalla prossima Biennale di Venezia: artisti, curatori

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