Alessandro Fogo alla Fondazione Coppola. Un testo critico.

di DAVIDE FERRI

Parto da lontano, e in modo inconcludente: da quando frequento Vicenza per le mostre al Torrione, ho idealizzato una cosa che non saprei come chiamare altrimenti se non “vicentinità”: che, come diceva Guido Piovene, coincide con un carattere marcatamente letterario della città, con l’idea che Vicenza sia “città d’invenzione, capricciosa e pura fuga nella fantasia”.

Se arrivo in stazione, ad esempio, e sento l’accento americano dei militari che vanno in caserma, penso immediatamente a Gli americani a Vicenza di Goffredo Parise, alla stralunata e minacciosa invasione aliena descritta in quel racconto. Se invece, dopo pochi passi, sento parlare veneto, mi viene in mente quell’impasto linguistico che nasce dal dialetto usato in Libera nos a Malo da Luigi Meneghello, che tra l’altro, pur in modo intermittente, è vissuto proprio a Thiene, dove Alessandro Fogo è nato.

Con Alessandro non discuto mai di romanzi e di questo carattere letterario della sua città d’origine. Lo incontro in genere in un luogo lontano, a San Benedetto del Tronto, dove da alcuni anni ha scelto di vivere e lavorare, davanti al mare. Gli anni determinanti della sua formazione, quelli in cui Fogo racconta di aver trovato la sua cifra, si sono invece svolti in Belgio, all’accademia di Anversa. “In quel periodo lavoravo molto, lavoravo e basta, e credo sia allora che ho capito cosa volevo dipingere”, mi ha detto una volta.

Eppure, per qualche ragione, mi piace pensare che in lui, nel suo lavoro, questo carattere letterario, questa vicentinità di cui ho parlato (che ha a che fare anche con un’attitudine particolare nel riuscire a dare una concretezza corporea, fisica, a visioni fantastiche e immateriali), sia presente. Presente nell’impasto narrativo che mi sembra di ritrovare nei suoi dipinti, e che deriva da una inclinazione a tenere insieme gli opposti, cose eterogenee e non sempre facilmente nominabili, che finiscono per collocarsi, nell’immagine, a una distanza ravvicinata: il quotidiano di stanze domestiche, di mobili e arredi comuni come tavoli e divani, vasi di fiori lasciati ad appassire negli angoli delle stanze, e l’aura sacra (sì, ho detto sacro, perché l’epifania del sacro dentro l’ordinario mi sembra uno dei tratti emblematici della sua poetica) che sembra prorompere dalle figure che popolano i suoi dipinti: animali con un forte richiamo simbolico, madonne nere, demoni, statue votive, satiri, tritoni, e via dicendo.

Il titolo della mostra, Reach out, touch faith, prestito da una canzone dei Depeche Mode, rimanda anche a questo movimento di avvicinamento (e irruzione) del sacro nello spazio dell’ordinarietà. “Penso spesso, mentre lavoro, a questo rapporto tra quotidiano e sacro. È un po’ come giocare con il vicino e il lontano, a volte ho l’impressione che il mio lavoro si svolga attraverso questi due movimenti: tra l’andare vicino a una cosa e poi prendere delle distanze, tra andare avanti e indietro. E mi sembra di partire da un’ambizione che ha a che fare con il sacro, qualcosa di apparentemente lontano, per poi portarlo all’interno di una dimensione vicina e famigliare, che ti dà la sensazione di “conosciuto”, ma che poi a una più lenta osservazione sfugge.”, ha affermato Alessandro.

Guardo i suoi dipinti esposti alla Fondazione Coppola: si tratta di una serie di lavori degli ultimi tre quattro anni, alcuni dei quali sono tra i più emblematici di tutta la sua produzione, scelti per incontrare gli spazi del Torrione. Quella del Torrione è una forma di spazio che avvolge lo spettatore in un dentro, in un interno che non offre mai (ad esclusione dell’osservatorio, da cui la visione sulla città si offre a 360°) aperture e visioni sul fuori, nei diversi piani dello spazio espositivo. Che sia proprio sul terreno di questa dimensione vagamente claustrofobica, di questa concentrazione di esperienza, che può giocarsi l’incontro tra i lavori di Fogo e gli spazi nei quali sono collocati?

I dipinti di Fogo costituiscono un universo sottilmente eteroclito, pluri-semantico, con forme e figure che sembrano emergere da un immaginario idealmente in dialogo con il Surrealismo e soprattutto con il Realismo Magico, per situare storicamente alcuni dei riferimenti dell’artista. Le immagini di Fogo, inoltre, non nascono all’insegna di un progetto definito (quando inizia a  lavorare, cioè, l’artista non sa a quale tipo di immagine approderà; ne ci sono tappe di avvicinamento che consistono in disegni, bozzetti, ecc…), ma si sviluppano e definiscono nel corso del processo di realizzazione del quadro, per progressive addizioni e aggiunte, attraverso cioè un montaggio, o una specie di concatenazione di elementi eterogenei e apparentemente inassimilabili tra loro, che si svolge in “qui” e “ora” del dipinto.

I dipinti di Fogo mi sembrano inoltre avere un carattere introflesso. Richiamare, cioè, un dentro che è come una specie di profondità vischiosa e un nocciolo solido nelle sue immagini.  Qualcosa di irrimediabilmente impenetrabile per l’osservatore. Non sembrano proprio così, impenetrabili, i “dialoghi” che avvengono, in stanze dall’aspetto borghese, tra una figura femminile – una Madonna nera ricorrente nei dipinti di Fogo -, e un serpente (nel dipinto Ragazza con serpente); e tra una donnola e una maschera dalle fogge demoniache ne Il potere della donnola? E quale filo unisce, nel lavoro dal titolo Living statue Killing itself, le statue di una Madonna nera e di una Lupa (capitolina) appena dietro di lei, testimone di un coreografico suicidio in primo piano? O, in Visione dopo il sermone, la figura di viandante con testa di gufo/civetta e la lotta tra Giacobbe e l’angelo, citazione portatile (la scena appare quasi appesa al fiore con grosso fusto che il viandante porta in spalla) del noto, omonimo, dipinto di Gauguin? Non è proprio per via della loro indecifrabilità che veniamo rapiti da queste immagini? E a richiamare quel dentro dell’immagine, non è anche la parzialità con cui le figure vengono rappresentate? Della figura femminile in The wrong offer, segreto rituale di offerta votiva che sembra svolgersi in uno spazio domestico, cerchiamo lo sguardo, ma la parte alta del volto è tagliata dal bordo superiore del dipinto (bordo che agisce, su quel volto, come una sorta di ghigliottina). E ancora: la testa di statua di Madonna nera che appare in Madonna nera e corvi bianchi è solo un frammento, un dettaglio, che si intravvede nel turbinio prodotto da un volo di corvi. Nell’ultimo dipinto realizzato da Fogo, infine, Angelo custode (notte piena di luce), i volti esclusi dal campo visivo dell’immagine sono due: quello della figura femminile distesa, circondata da girasoli che sembrano orientati verso la luce che emana dalla sua presenza (o, al contrario, illuminarla come faretti), e quello della figura nera sullo sfondo, sorta di angelo nero che, di spalle, indietreggia rispetto al primo piano dell’immagine, ritirandosi dalla scena. Lavorare per dettagli dunque, escludere, rifiutare l’esaustività e la descrizione, sembra per Fogo un modo di lascare aperta l’immagine alla possibilità di diversi significati, di tenerne vive le potenzialità inesplose.  

Se ci penso una delle cose che mi colpisce dei lavori di Fogo è, inoltre, lo “spazio stretto”, lo spazio angusto, nel quale si collocano le sue figure. È un primo piano molto ravvicinato, che sembra chiudersi e stringersi attorno a loro, come a bloccarne o limitarne le possibilità di movimento. Qualche volta, come avviene in Scacciadiavoli – immagine di una testa femminile con accanto un diavolo giottesco che sembra materializzarne/visualizzarne un pensiero o un’intenzione – è un accenno a un’architettura sacra; altre volte a un paesaggio, ma soffocante, arido e glaciale (senz’aria, “fermo”, mi verrebbe da dire); altre volte ancora, più spesso, è un interno domestico, un angolo di stanza, di soggiorno o salotto di una qualche placida casa borghese. In questo spazio stretto, inoltre, i mobili e gli arredi stessi sembrano limitare e circoscrivere il movimento delle figure: in The wrong offer, ad esempio, un tavolo in primo piano pare incastrare la figura, bloccandola contro lo sfondo; in Living statue killing itself è il divano a misurare una specie di campo energetico della figura, il cui equilibrio precario è punteggiato da due oggetti, una sfera e una piramide posati sul pavimento. L’angolo, ho detto poco fa: non sono solo gli spazi che Fogo dipinge ad avere conformazioni angolose, o a risultare dalla combinazione di angoli, ma le posture stesse delle figure a rilanciare e ripetere questa forma dell’angolo: angoli disegnati nella forma dei corpi, nello spazio tra di essi e gli ambienti nei quali sono collocati.

Vorrei infine evidenziare un aspetto di natura formale, per usare un termine un po’ obsoleto, e che ha che fare con la sua tavolozza: è fatta spesso di colori ambigui, che avrei difficoltà a nominare con precisione, che in molti dipinti l’artista decide di far convergere verso un tono di fondo, attraverso una specie di viraggio. Così, ad esempio, molto spesso i suoi lavori tendono a una gamma di toni tendenti a un blu/verde acquatico, un aspetto che dà l’impressione di guardare le sue immagini trattenendo il fiato e come stando sott’acqua. Altre volte, invece, tendono al rosso, come è il caso due dipinti in mostra, Eclissi e girasoli e Idol burning itself , dove il rosso come tono dominante amplifica l’effetto straniante e vagamente allucinato delle immagini, infuocandole.

Davide Ferri

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