ECLISSI DELLA RAGIONE?  L’OCCIDENTE ALLA FRUSTA

di Giuliano Parodi

Il panorama planetario che si offre all’analista come al semplice osservatore vede offuscarsi progressivamente la lente interpretativa fornita con sicura baldanza dall’approccio illuminista come da quello storicista, che guardava con attenzione al palesarsi delle cosiddette “forze storiche”. Nel contempo pare in via di frammentazione/consunzione quella classe borghese tanto combattuta quanto rispettata da Marx, che forse sarebbe rimasto deluso dalla classe proletaria pur tenuta a battesimo. È la borghesia mercantile che rompe la rigida tripartizione altomedievale fra classi, quella dei guerrieri che comandano e non lavorano, quella dei chierici che pregano e studiano, quella della massa servile che lavora per tutti: è da quest’ultima classe che esce la borghesia mercantile, il ceto moderno del Medioevo a fronte del protervo cavaliere e del chierico saccente. A differenza della Cina, dove il confucianesimo tollera il commercio come un male necessario, inizialmente in Italia e quindi in Europa, il mercante si fa audacemente avanti, creando quel proto-capitalismo che gli consente di farsi classe dirigente e di umiliare Barbarossa. Tra Legnano e Naseby, dove le “teste tonde” cromwelliane sconfiggono definitivamente re Carlo, corrono non invano quasi cinque secoli e da quel momento attraverso due rivoluzioni inglesi, l’Illuminismo, la nascita del capitalismo industriale la grande rivoluzione francese e la guerra d’indipendenza americana di qua e di là dell’Atlantico la borghesia si fa classe dirigente e il XIX secolo che viene avanti verrà definito il “secolo della borghesia”.

Tutto ciò si verifica solo in una piccola parte di mondo, tuttavia quella più dinamica e demograficamente vivace: allo spirare di quel secolo, nonostante tutti gli “ismi” emergenti e nient’affatto rassicuranti (protezionismo, imperialismo, militarismo, nazionalismo, razzismo), l’Europa domina incontrastata, anche se divisa, l’intero pianeta: dopo essere stati espulsi dalle Americhe, dove si è imposta la dottrina di Monroe, i suoi stati più forti sgomitano tra di loro in Asia e in Africa, seppure nessuno pensi o si attenda che possano confrontarsi in una guerra europea. Ma non tutto il continente è “borghesizzato” e composto da stati-nazione poiché resistono vecchi e nuovi imperi dove il liberalismo è debole o inesistente per cui sono i Balcani, il buco nero destinato a precipitare nel suo abisso l’intero continente. In quella terra disgraziata di eterno confine (fin dalla divisione dell’Impero Romano tra i figli di Teodosio) si inabissa l’impero asburgico dalla borghesia subalterna, scompare quello russo dalla borghesia inesistente, deraglia quello tedesco dalla robusta borghesia, infeudata però allo Stato, e agonizza quello ottomano, da tempo in consunzione. Si imporranno poi i giochi delle alleanze e quella sorta di impazzimento generale delle società viziate della “belle epoque” di cui ci dà conto la storia benché, anche solo come ipotesi consolatoria, possiamo cullarci nell’illusione che i parlamenti di Londra e Parigi, senza Sarajevo, avrebbero agito diversamente.
Dal frullatore della grande guerra in cui la borghesia europea va al massacro morale e politico sacrificando milioni di proletari in divisa, si fa avanti la nuova classe chiamata alle armi che, ora prende il potere ordinariamente – per via di rivoluzione ad imitazione di quella borghese – in Russia, ora si riconosce nella tirannia moderna dei regimi monopartitici di Mussolini e Hitler.

Sarebbe certamente sbagliato assegnare razionalità e misura al solo capitalismo liberale poiché, a sua volta, possiede in sé l’hybris del liberismo selvaggio e irrazionale ma, ugualmente, possiamo avventurarci nella storia controfattuale, sempre così avvincente, immaginando che il piano Young, che doveva supportare finanziariamente la ripresa economica tedesca, non venisse abbandonato per via della crisi del ’29: potremmo così supporre che l’Europa avrebbe avuto vent’anni prima quello che ha avuto vent’anni dopo, evitando una guerra e cinquanta milioni di morti.
Il partito nazista sarebbe rimasto, allora, una congrega di revanscisti bevitori di birra e il maestro di Predappio avrebbe forse continuato a minacciare sfracelli con i suoi sorci verdi e gli otto milioni di baionette, guardato con tollerante condiscendenza dai premier britannici e dal presidente Roosevelt, oppure si sarebbe mantenuto entro i limiti del realismo politico, perché non istigato/impaurito dal suo sedicente allievo austriaco. Vent’anni dopo, appunto, si realizzava forse quello che avrebbe potuto prender corpo vent’anni prima, vale a dire l’ingresso americano in Europa e l’inizio di un controllo d’oltre Atlantico che non è mai finito. Ciò nonostante due sono gli “occidenti” che procedono nel dopoguerra, quello americano del capitalismo arrembante e quello europeo imbrigliato da Keynes e Beveridge in Gran Bretagna come dalla socialdemocrazia tedesca e dall’industria di stato italiana: da questa parte dell’Atlantico si ritiene che lo stato debba occuparsi dei suoi cittadini attraverso una tassazione progressiva che offra gratuitamente o a prezzi politici alcuni sevizi essenziali.

Mentre allora negli USA la società tende ad autoregolamentarsi mettendo la libertà davanti alla giustizia, in Europa, attraverso l’iniziativa statale si creano le società del benessere o dei due terzi che portano alla borghesizzazione di fasce sempre più ampie di proletariato: il processo avviato in Gran Bretagna dalla fine dell’800 viene fatto proprio dall’Europa occidentale assegnata da Yalta all’America, una volta che Spagna e Portogallo abbattono le dittature di casa loro.
Questa fetta di mondo trae gran parte dei suoi benefici dal fatto che il collettivismo sovietico controlla e presidia buona parte del pianeta, anche attraverso gli stati post-coloniali che si rivolgono ora all’una ora all’altra parte dominante, restando quella dei non-allineati (guidati da Jugoslavia, India ed Egitto) una ipotesi rimasta sulla carta. Crisi, guerre e tensioni internazionali non mancano ma l’equilibrio bi-polare USA/URSS garantisce l’ordine mondiale.

L’erosione interna e il successivo collasso del comunismo sovietico sembra dare ragione al sistema occidentale che ha saputo governare le sue società dosando in modo accettabile giustizia e libertà, oltre a garantirsi la deterrenza militare senza impedire lo sviluppo economico e il benessere complessivo: ora non si tratta che di estendere il modello vincente al resto del pianeta e la pace universale non sarà più solo la speranza illuministica di Kant.
Le crisi irachena e somala accanto ad alcuni smottamenti interni alla neonata Federazione Russa sembrano scosse di assestamento fisiologiche, data la portata del cambiamento, che possono venir assorbite, finché non si arriva all’11 settembre. In una dozzina d’anni l’unilateralismo americano mostra la sua astrattezza, l’ordine mondiale è messo in discussione e l’Occidente comincia ad arretrare adottando soluzioni datate per uno scenario nuovo. È passato troppo tempo dal Vietnam per capire che la ricetta usata con successo nel dopoguerra per Germania, Giappone e Italia (sostegno economico e liberal-democrazia) non funziona: il benessere e la libertà individuale occidentali sono intesi come valori e obiettivi grazie al risultato di secoli di storia che appartengono solo a questo angolo di mondo, vale a dire all’Europa occidentale e alla sua “estensione” statunitense. Si è a lungo creduto invece che potessero essere l’ascissa e l’ordinata di un cartesianesimo universale, mentre esistono modelli sociali nei quali la libertà individuale è spesso ignorata o perfino temuta e comunque non compresa e non ricercata. Anche la globalizzazione economica è un portato dell’unilateralismo americano, di quell’ottimismo della volontà che pretende di poggiare sulla razionalità: nell’arco di un paio di decenni il liberismo mondiale ha portato all’emersione di paesi niente affatto assimilabili ai modelli occidentali, paesi che hanno forse imitato formalmente la liberal-democrazia finché gli USA erano o apparivano imbattibili ma che poi hanno imparato a presentare il conto di un sottosviluppo di matrice neo-coloniale che intende sovvertire gli equilibri planetari. In poco tempo da battistrada all’avanguardia dello sviluppo socio-politico del mondo l’Occidente americano appare conservatore e sulla difensiva come le liberal-democrazie fra le due guerre del secolo scorso.
La caduta del Muro non ha peraltro mutato i rapporti fra le due rive dell’Atlantico: gli USA, tramite la NATO, intendono continuare a dettare l’agenda, come quando c’era l’URSS, e l’Europa, pur allargandosi generosamente, non è riuscita a costruire una coesione interna in grado di farla pesare.

Tali miopie e incapacità uguali e opposte nuocciono gravemente all’intero Occidente e alla sua idea di mondo e questa pericolosa insufficienza si è sommata alla crisi economica strisciante del mondo capitalista avanzato, dovuta ora ad un relativo miglioramento di alcune realtà del Terzo Mondo ora ad una nuova ondata neo-liberista, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, che ha progressivamente eroso il potere d’acquisto delle classi medie.
Al di là dei fattori esogeni (crisi internazionali che si trascinano da troppo tempo, crescita economica disordinata e instabile in varie parti del mondo, guerre a bassa tensione protratte troppo a lungo e, infine, guerre guerreggiate e conclamate), l’allargamento della forbice fra ricchi e poveri con il conseguente impoverimento della borghesia di massa, a cui affluivano anche fasce crescenti di proletariato, è il vero motivo della crisi della liberal-democrazia occidentale e dell’avvento della destra populista. Oltre ad impoverire le società il neo-liberismo sregolato ha consentito l’accumulo di fortune immense nella mani di singoli imprenditori che si sono rivelati un pericolo per la democrazia stessa nel momento in cui, dalla consueta pratica lobbistica, sono passati all’impegno politico diretto. Quel tasso di demagogia fisiologico alla politica, quel tanto di persuasione scorretta predicata già dagli antichi sofisti come una necessità per ottenere consenso è diventata iperbolica nelle mani di personaggi a cui il potere economico esorbitante ha permesso – per la mancanza o la connivenza delle leggi in vigore – di muoversi come tiranni moderni innalzati dal voto popolare.

Qualora non appaiano personaggi del genere sono le rinate destre nazionaliste/populiste a soffiare sul fuoco del crescente malcontento e della fuga dalle urne e ciò sta avvenendo sia negli stati dell’Europa orientale, storicamente illiberali, sia nelle realtà di più robusta tradizione democratica: la Brexit, pur innestandosi nella secolare tradizione insulare britannica, è stata guidata da un leader populista, e così le destre fascistoidi italiana, francese e spagnola e filo-nazista tedesca hanno ampiamente pescato nell’armamentario del recente populismo alimentato da un’alternanza fra destra e sinistra democratiche incapaci di dare risposte all’altezza della situazione.
Le elezioni europea e americana dell’anno prossimo saranno decisive rispetto alla faglia che si sta aprendo nel seno dei due “occidenti”: una volta assodato che la regia planetaria va ripensata e condivisa, trovando necessariamente un modus vivendi capace di superare le logiche strategiche e geopolitiche di oggi e addossandosi la responsabilità di passi dolorosi volti ad evitare la catastrofe, occorrerà intanto badare ai fatti casa nostra cercando di contenere la deriva esiziale che ci proietterebbe in una terra incognita dove la fine delle nostre società sarebbe pressoché certa.

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