Io sono di quella generazione che doveva fare il militare. Ne ho fatti soli tre giorni in caserma a Taranto, scapolando il resto in maniera assolutamente legale grazie al combinato disposto di alcuni cavilli normativi. Sono moralmente un disertore, anche se quel che ho fatto di sport in gioventù, sia per mare che in montagna, può valere molto più che dei mesi passati a marcire da imboscato in caserma.
Io sono di quella generazione, tra i boomer e gli X, i cui genitori erano troppo giovani per fare la guerra, ma da adolescenti la seconda mondiale l’hanno vissuta. Qualche zio un po’ più anziano l’ha invece fatta per davvero, da una parte o dall’altra del fronte, con divise diverse, o senza divisa. Io sono di quella generazione i cui nonni hanno fatto la prima, non importa se a cavallo nelle Ardenne o in galleria sul monte Cengio, ché sono meticcio, e uno dei due si è pure riarruolato poi da volontario nella seconda, come medico sui treni che portavano a casa i feriti dal fronte russo, scrivendo su un foglio nascosto in soffitta “Ich gehe nicht für den Führer, ich gehe für mein Vaterland” (non parto per il Führer, parto per la mia Patria). Ho avuto nonne sfollate a Firenze dopo Caporetto e a Wilmsdorf prima del grande bombardamento di Amburgo, prozie a Sernaglia della Battaglia che curavano meticolosamente l’aiuola del monumento ai caduti del Piave di fronte a casa.
Tutti hanno raccontato, ed io bambino prima, e ragazzo poi, ho tanto ascoltato, versioni naturalmente diverse, ma per tante cose molto simili: la sofferenza, la fame, la fatica, la paura, e anche l’adrenalina, l’avventura, l’onore, l’integrità; tutte, però, con un grande assente, o comunque a fare solo da sfondo senza essere elemento fondante del racconto: il nemico. Nei racconti famigliari la tragedia era la guerra in quanto tale e il nemico era solo una parte di quella condizione; non ho mai sentito insulto o odio per qualcun altro, piuttosto il sollievo di poter raccontare qualcosa che era passato.
Io sono di quella generazione cresciuta con le città imbandierate, le commemorazioni, le celebrazioni e le fanfare del quattro novembre, del venticinque aprile, del due giugno, delle adunate dei bersaglieri e dei fanti. Quelle bandiere, così come quei racconti di prima mano o il piave mormorava e bella ciao fatte cantare dalla maestra, sono parte del mio indelebile vissuto, quel che serve ad aborrire la guerra con la consapevolezza che me lo posso permettere perché so che c’è stata e come è stata. I miei figli, per certi versi fortunatamente, per altri purtroppo, non hanno quel vissuto, o ne hanno solo una sfumata versione. Per i miei futuri nipoti quella che per me è storia contemporanea sarà solo un pezzetto in più della storia moderna; delle possibili conseguenze, poco piacevoli segnali si avvertono già oggi, ma confido che i più giovani sapranno prendere la giusta strada se non perderanno del tutto queste memorie.
Nei prossimi giorni Vicenza ospiterà la novantacinquesima adunata nazionale degli Alpini, siamo vicinissimi al centenario. In un mondo che volge lo sguardo altrove un evento del genere dovrebbe suonare anacronistico, obsoleto, destinato a morire; invece sorprendentemente cresce di anno in anno. Si dirà che è tutto un business, ci si lamenterà che non si può mettere a ferro e fuoco una città per tre giorni, si brontolerà per il vomito e le pisciate negli angoli, per qualche apprezzamento di troppo, per gli schiamazzi, per i dannosi fiumi di alcol, per la goliardia esagerata e molesta; si invocherà un pacifismo di principio, al quale in teoria dovrei aderire visti i miei, di principii. Ma non può essere così: non sono questi gli Alpini; molto banalmente in ogni gruppo numeroso di persone c’è una endemica percentuale di idioti, tanto alle adunate quanto ogni domenica allo stadio o al mega concerto dell’ennesima rockstar; l’alpinità è altro. Nella storia gli Alpini hanno fatto la guerra, è vero, ma l’hanno fatta contro una montagna ostile prima che contro un nemico, e questo ne ha forgiato un certo carattere, un certo modo di affrontare le cose. Gli Alpini in epoche recenti hanno saputo dare il meglio in esemplari missioni di pace. Gli Alpini sono oggi una grande realtà sociale prima ancora che una meritevole arma. Domenica, dopo i bagordi, sfileranno composti per ore quelli con le camicie a quadri, quelli che in tempi non sospetti han costruito asili a Nikolajevka, quelli in divisa giallo fluo che, interpellati con la coda tra le gambe all’ultimo minuto per un servizio, ti rispondono “oh, il terremoto non è mica in calendario”, quelli che ogni anno si stringono la mano con i Kaiserjäger in Ortigara e in Pasubio avendo fatto della storia tesoro e non motivo di falso orgoglio. Sfileranno con le bandiere, gli striscioni e la musica, consapevoli di essere ancora parte di un vissuto vivo.
Da venerdì prossimo, e per tre giorni, avete tre possibilità: fuggire in vacanza altrove senza brontolare; rintanarvi in casa e dilettarvi di cucina; oppure scendere in strada, girare una città finalmente senz’auto, partecipare alla festa con moderazione di bicchieri, cantare forte in terza voce, commuovervi di fronte a tanta storia e umanità. Io ho già messo le bandiere alle finestre.
VIVA GLI ALPINI!