La Nona di Beethoven. Orchestra del Teatro Olimpico, Orchestra Filarmonica SetteNovecento, Schola San Rocco. Direttore Alexander Lonquich.

Per la prima della “OTO” il Teatro Comunale si presenta pieno in ogni ordine di posto. Lo spettacolo della sala è la prima grande emozione della serata, inutile negare come tornare a certe dimensioni di pubblico rappresenti ora qualcosa di simbolico. Si respira l’aria delle grandi occasioni. Si torna alla normalità anche se lo spettro del covid non smette di aggirarsi per la città. E, parlando di ritorno alla normalità, non esiste nulla al mondo di più adatto di Beethoven e della Nona in particolare. Quando l’immenso Leonard Bernstein la diresse sulle macerie del muro di Berlino, la sinfonia entrò di diritto a rappresentare la metafora della pacificazione e della speranza. Non che non fosse già un mito. Fin dalla prima esecuzione, il capolavoro del genio di Bonn fu qualcosa di assoluto per chi lo ascoltava. Era il 7 maggio del 1824 ed il Teatro era quello di Porta Carinzia a Vienna. Sul podio c’era, ormai completamente sordo, Beethoven in persona il quale subito non si accorse dell’entusiasmo del pubblico in sala; se ne rese conto solo dopo che il contralto Caroline Unger lo invitò a voltarsi verso la platea in visibilio. 

La Nona fu subito talmente epocale che chi venne dopo il Titano si guardò bene dal comporre quel numero di sinfonie. Fu solo Mahler, più di 80 anni dopo, ad arrivare a concepire addirittura una Decima, che però, forse per destino, rimase incompiuta. Nel ventesimo secolo il tabù si ruppe e giganti come Shostakovich, ad esempio, sono arrivati a 15 sinfonie. Ma quella Nona rimane ad oggi forse il punto più estremo della storia della musica. Fu la prima sinfonia a superare l’ora di durata, la prima ad avere una parte corale e solista, la prima ad ampliare il numero degli orchestrali come mai in precedenza. Si può dire con certezza che esista una storia della musica prima e dopo Beethoven e si può dire ancor di più che esista prima e dopo la Nona. A quasi 251 anni dalla sua nascita lo possiamo dire sempre di più. Esistono dei grandi spartiacque, dei momenti che dividono la storia in un prima e in un dopo. Il 16 Dicembre 1770 fu l’inizio, solo l’inizio, di uno spartiacque durato 57 anni, un periodo in cui si estende la vita del Titano e in cui il mondo cambia. Beethoven è, tra le mille cose, anche il passaggio dal mondo classico a quello moderno, dall’aristocrazia alla borghesia, dalle corti dei Re alle idee democratiche e comuniste, dalla rivoluzione francese e l’infatuazione per Napoleone fino alla coscienza individualista e romantica. Un’epoca intera, un cambio definitivo. Un cambio che poi percorre anche la sua vita, segnando cambiamenti di stile, di gusto, di personalità, di amori, di posizioni politiche ed intellettuali, e stravolgimenti fisici. Come abbia potuto un sordo completo fare ciò che ha fatto Ludwig Van Beethoven rimarrà per sempre un mistero solo in parte spiegato da concetti concreti che qualunque compositore può corrispondere, perché le vette siderali della sua creazione non hanno paragoni umani, terreni, ma solo presupposti celesti, orizzonti al di là del visibile, del comprensibile. In Beethoven scorre la storia e lui la plasma su di se, padrone di se stesso e della sua ispirazione debordante. Il senso di liberazione ed il concetto stesso di indipendenza, sprigionamento e affrancazione, è teorema e cardine del tutto. Prima di lui solo Mozart, l’alieno Mozart, quel giovane ribelle il cui genio è ugualmente inspiegabile, solo Mozart aveva provato a diventare artista puro, e non dipendente di corte come tutti. Amadeus cercò il giusto mezzo tra gusto popolare e creazione libera, tra committenza privata e autonomia, soffrendo sempre e comunque e terminando la sua breve ma intensissima vita senza aver risolto le dicotomie ma aprendo comunque la strada al dopo. E quella strada la prese l’uomo di Bonn e ne fece via maestra per ogni generazione futura di artista. Tutto quello che noi diamo per assodato, ovvero che un compositore scriva i suoi lavori mettendoci dentro se stesso, rischiando in base al successo o all’insuccesso, calibrando uscite e stili a seconda di tempi e necessità, bene, tutto questo prima di Beethoven semplicemente non esisteva.

Alexander Lonquich

Alexander Lonquich non è un beethoveniano di ferro, potremmo dire che alla direzione di Beethoven ci sia arrivato solo negli ultimi anni. Pianista acclamato, nella sua produzione troviamo molti lavori tipicamente romantici come le sonate e la fantasie di Schubert o i concerti per piano di Schumann. Ma Lonquich deve anche la sua fama all’interpretazione di compositori del novecento come Kodaly e il grande Messiaen, che hanno certo timbri e stili molto lontani dal pianismo beethoveniano. Eppure Lonquich risulta eccellente in un lavoro con Nicolas Altstaedt sulle opere per fortepiano e violoncello del grande sordo. Recentissimamente poi c’è stata una “maratona Beethoven” a Ferrara, in cui ha diretto e suonato l’integrale dei concerti per pianoforte e orchestra. Però la Nona è la Nona. Anche per uno affermatissimo come Lonquich. E pensiamo alla tensione emotiva dell’Orchestra del Teatro Olimpico nel provare questo monumento. Per l’occasione l’ensemble è allargato all’Orchestra Filarmonica SetteNovecento mentre il coro e i solisti vengono dalla Schola San Rocco.

Il palco così si presenta regalmente e si è pronti per iniziare. Lonquich ha dichiarato di aver svolto un lavoro attento e filologico sulla partitura. Secondo il Direttore, si sono sempre staccati tempi troppo lenti nell’esecuzione della sinfonia. E attorno a questo concetto gira tutta la prova della serata. I tempi scelti da Lonquich sono, in effetti, molto più veloci di quanto si sia abituati. Forse pure troppo. Lo si percepisce soprattutto nel terzo movimento, dove la dolcezza infinita dell’adagio viene un po’ scalfita da una precisione puntuale e da un ritmo sostenuto. La chiave dell’interpretazione sta proprio nel tempo e in un equilibrio che, come nel primo movimento, toglie un po’ i forti chiaroscuri e uniforma le tensioni. In altri passaggi pare di percepire poca legatura e la fluidità arranca. L’attacco del secondo movimento soffre di un errore ai timpani. Nel quarto, al di là di qualche zoppichio negli ottoni, la grandeur dell’inno alla gioia esce con tutta la sua potenza ed il finale è impeccabile. Un’ora e cinque minuti comunque è davvero una durata inconsueta. Si pensi che le esecuzioni memorabili della Nona durano di solito dai 5 agli 8 minuti in più, ed in musica sono un’enormità.

Serata di gala comunque. E scelta splendida quella di riaprire con il solo, il grande, l’unico Ludwig Van Beethoven.

Aprile 2024

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