“Chiunque è della verità ascolta la mia voce”. La Johannes Passion al Teatro Olimpico di Vicenza.

Trecento. Gli anni che separano questa serata di assoluta bellezza dalla “prima” della Johannes Passion. La data esatta, il 7 aprile 1724, Venerdì Santo. Il luogo, la Nikolaikirche, la Chiesa di San Nicola, a Lipsia, costruita nel 1165, l’edificio religioso più antico della città. Ieri sera, 300 anni dopo, l’otto aprile del 2024, nel più antico teatro coperto dell’era moderna, la meraviglia ha nuovamente trovato casa. Per due ore la storia ha preso residenza tra le mura del capolavoro palladiano. La storia maestra di vita, per una volta davvero. Che si mostra negli strumenti antichi dell’orchestra Frau Musica, nella straordinaria progettualità di integrazione alla base del progetto di Andrea Marcon, che unisce popoli e tradizioni nel nome dell’arte. Lo stesso Direttore, prima dell’esecuzione, consiglia al pubblico di trattenere l’applauso alla fine, di godersi il silenzio dopo l’ultima nota, di accogliere il compimento dell’opera con un raccoglimento intimo prima di lasciarsi andare. L’applauso poi sarà un’onda impetuosa, una liberazione di gioia.

Se c’è un’arte capace di raccontare Dio, questa è la musica. Ascoltare questa passione vuol dire esplorare il mistero, ma anche percepire la luce e soprattutto l’amore che Bach provava per il suo Creatore, ricambiato. Ascoltare questa musica vuol dire essere quasi sopraffatto da un oceano di suoni, dalla drammatica potenza della passione di un Uomo che carica su di sé l’intera storia dell’Umanità. Può avere un effetto inquietante, o al contrario emozionante, di fronte alla vastità della prospettiva. Non si tratta solo di meditare e di cercare Dio: questo è anche un viaggio nel profondo dell’esistenza umana, nella segretezza dell’animo umano, e della verità di noi stessi.

Ma ogni quadro vuole la sua cornice. L’Olimpico, come quasi sempre accade, ha dato il meglio di se quando carica gli astanti in un viaggio nel tempo e senza tempo. Chinati sul libretto, a seguire parola per parola l’evolversi della trama e delle arie e dei recitativi, passeggeri di un’arca ideale, il pubblico si trovava nel 1585, nel 1724 e in un 2024 estremamente migliore di quello reale. Le espressioni sul volto di Christian Wagner, stupendo Gesù Cristo, che seguiva il cantato parola per parola quando non toccava a lui, a stento celavano uno struggimento, una sofferenza beata, una sorta di estasi stendhaliana. In lui e attraverso lui passa il dramma della passione e la luce della risurrezione. Ma tutti i solisti sono stati superbi. Raphael Hohn, nei panni dell’Evangelista, la soprano Gunta Smirnova e la splendida Sara Mingardo che ha reso un’interpretazione magistrale dell’aria n.30 “Es Ist Vollbracht”, uno dei momenti più incantevoli dell’intera serata. Ma era ogni qual volta il Coro del Friuli Venezia Giulia prendeva la scena, che l’animo palpitava, in un terremoto viscerale e insieme una comunione di passione. Ecco il senso più profondo della “passione” che si fa “compassione”, nel senso di partecipazione alle afflizioni, pietà, comprensione. La storia, ancora, come spiegato nel programma di sala, ricorda la passione vissuta 80 anni fa, nel 1944 quando le bombe caddero su queste terre, portando morte e distruzione. Era l’inizio della fine dell’incubo della seconda guerra mondiale. Era un tempo in cui la follia dell’uomo aveva toccato vette di inarrivabile disumanità. E oggi, mentre di nuovo la pazzia ci minaccia e ci uccide, con ignobili dittatori che portano la guerra in Europa e dove ci sono intere regioni in ginocchio, proprio là dove il Cristo nacque e morì, dove il Verbo si fece uomo, noi riceviamo questa devastante opera d’arte bachiana, con lo spirito di chi rimane sgomento di fronte al male e alla storia che non insegna e alla Parola di Dio che viene per indicarci una luce che fatichiamo a distinguere in questa voliera di stoltezze che è diventata la nostra normalità.

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