Lo ammetto: cercavo una scusa per poter parlare di Parise. Ma, a pensarci bene, non servono nemmeno scuse. L’attualità di Goffredo Parise è enorme e sempre più tristemente importante. Dico tristemente perché il gran pessimista aveva colto il segno del declino in tempi non sospetti, aveva visto attorno a lui frantumarsi i ricordi di un mondo umano che si stava disumanizzando. Si ritirò a Salgareda ad un certo punto, nel trevigiano, in una casa fantastica che aveva scoperto per caso, durante una passeggiata a cavallo. Salgareda era il verde, la natura, il romanticismo della campagna. Le sue giornate divennero via via sempre più lontane dal mondo moderno che lui rinnegava perché non lo sentiva suo e ne provava disprezzo. Quindi si alzava all’alba e con una stilografica scriveva a mano fogli su fogli (solo più tardi iniziò a scrivere a macchina). Una vita infelice ma dinamica, malinconica ma attiva. Lui si isola proprio quando il boom Veneto ancora deve venire ma lui già lo fiuta, sente che l’Italia dei “lotti” sta avendo la meglio su quella della ragione. Ma ora sto divagando, e capita giocoforza se si parla di Parise. Il motivo per cui mi è venuto in mente il grande (il più grande?) scrittore vicentino in questi giorni è il suo libello “Dobbiamo disobbedire” che racchiude quelli che paiono piccoli saggi che in realtà altro non erano che quel che lui scriveva nella rubrica di posta dei lettori sul Corriere della Sera. Ebbene, in giorni come questi in cui la disobbedienza, il rancore, la prova di forza, sono sulle cronache per molti motivi, mi è venuta in mente la disobbedienza di Parise. Perché, di base, la sua era una disperata e forse consapevolmente disillusa richiesta di ritorno ad una cultura primaria, senza dubbio di ritorno alla cultura in generale. E questo per lui doveva avvenire attraverso la semplicità, parole semplici, vita semplice, attenzione ai particolari, ai dettagli, a quel che accade nell’attimo stesso che stai vivendo. Un’esistenza simile non era compatibile con quel sistema di sviluppo che, come diceva Pasolini, non era progresso. Leggere questo agilissimo libro di Parise significa entrare nella sua sfera filosofica probabilmente come in nessun’altra sua opera. Le invettive contro i media, contro la scuola e contro la politica. Non poteva sopportare chi facesse carriera politica, mentre per lui si doveva semplicemente avere una vita politica. E credo sia una sottolineatura ancora più che valida. E poi la povertà come rimedio. Per Parise tornare poveri voleva dire tornare ad essere capaci di «godere di beni minimi e necessari» rifiutando «di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi». Una povertà, sia chiaro, che non era né miseria né tantomeno comunismo, ma un’altra forma di disobbedienza alla vita insensata che l’uomo moderno pareva rincorrere a tutti i costi. Ecco, Parise manca molto oggi. Il Parise impolitico, il Parise senza speranze, il Parise ammonitore. Ma anche il Parise innamorato del suo Veneto, che lui chiamava Patria. Il Parise che solo nella conoscenza vedeva soluzione. Mentre oggi tutto va a rotoli anche e soprattutto per mancanza di cultura, di calma, di semplicità. Socrate diceva: “conosci te stesso”. Oggi il mantra è: “sii te stesso”. Poco conta che prima di essere si debba magari sapere cosa essere e perché.
Siamo finiti così. Da Socrate a Maria De Filippi.