Per i 100 anni di Calvino – Il Visconte Dimezzato, la fiaba dell’uomo contemporaneo

Nella vasta produzione letteraria di Calvino vi è una semplice e brillante gemma, una fiaba atipica, il primo dei nostri antenati: Il Visconte Dimezzato. La storia di Medardo, diviso in due metà violentemente antitetiche, ha ancora molto da dirci sulla nostra umanità e sul nostro essere con gli altri. Il più breve racconto della trilogia ci pone davanti un ritratto di noi stessi, della nostra incompletezza. L’immagine dell’uomo tagliato in due è potente, significativa poiché tutti ci sentiamo in qualche modo manchevoli. C’è sempre una parte di noi ancora non realizzata. Quanto è doloroso pensarsi incompleti. Ed è questa ferita aperta dell’uomo postmoderno che ci permette di sentirci così vicini alle vicende fantastiche, surreali e divertenti abilmente intrecciate nel Visconte Dimezzato. Tra le varie letture e critiche sul Visconte, dalla più profonda interpretazione letteraria allo sguardo politico che vedrebbe le due parti come incarnazione di destra e sinistra, occorre volgere l’attenzione agli elementi che rendono vivo questo libro: i personaggi, sorgente e veicolo di un particolare messaggio. Per comprendere Medardo di Terralba, il nostro visconte, occorre innanzitutto superare il dualismo bene male come chiave di lettura univoca. L’estrema opposizione tra il Gramo e il Buono non è lo scontro tra Satana e il Dio buono, tanto che entrambe le metà risultano spiacevoli. Medardo cattivo è crudele, sadico secondo una sua logica, ma il buono non è da meno: il suo agire da crocerossina si traduce in una noiosa e stucchevole emulazione di un martire. Calvino, volendo un’architettura narrativa basata sui contrasti, scelse di fare una metà buona e una cattiva semplicemente per ottenere l’antitesi massima. La verità contraddittoria di Medardo sta altrove. 

Al principio del racconto egli è sano e intero, ma privo di carattere: un uomo qualunque, senza attrattiva. Quando dopo il terribile incidente in guerra, come per incantesimo, nel suo essere una metà (essere-a-metà) il visconte si rianima e assume un volto, anzi due. I dimezzati nella loro assurda disumanità appaiono comunque più vivi e veri del Medardo intero con cui inizia e si conclude il racconto. Il lettore instaura un legame più autentico con le due metà, mentre l’uomo intero, né buono né cattivo, è come avvolto da un’opaco grigiore. Ci rispecchiamo nella follia, nell’ottusa e orgogliosa incompletezza, piuttosto che in un felice e giusto visconte completo. Tutto attorno a Medardo si articola un corollario di personaggi che appartengono al mondo chiuso della corte o alla realtà, forse ancor più ostile, della campagna circostante. Mentre Medardo potrebbe rappresentare l’io frammentato in rapporto con sé stesso, gli abitanti di Terralba sono gli uomini in rapporto agli altri uomini. Si tratta del confronto con l’altro, necessario e meraviglioso, che permette di superare i limiti dell’ individualità, in quanto esistere significa anche co-esistere. Tuttavia nel mondo del Visconte Dimezzato l’incontro con il prossimo è apertamente conflittuale. Ogni ente individuale assume nei confronti degli altri un atteggiamento di sospetto, se non di ostilità. Un orizzonte di pensiero elastico sembra l’unico modo per accettare e accogliere il diverso. Per poter comunicare, l’ego di ciascuno dovrebbe essere autonomo, ma senza pretesa autarchica, consistente e non rigido. Mentre i personaggi del racconto sembrano proprio accomunati dalla rigidità. Il dottor Trelawney, Mastro Pietrochiodo, il vecchio Aiolfo, i genitori di Pamela aderiscono tutti tacitamente a una forma di solipsismo, camminano in vicoli ciechi, senza mai veramente incontrarsi. Altri invece come gli ugonotti e i lebbrosi sono imprigionati in forme di collettivismo, in cui la persona non è valorizzata, ma mera parte di un tutto senza forma.

Emerge così il tema dell’incomunicabilità, della difficoltà a relazionarsi, dovuta, nel Visconte, alla convinzione dei personaggi che in natura la relazione con l’altro sia di opposizione. Ne sono esempio la visione fondamentalmente negativa dei rapporti umani dei personaggi e il disprezzo carico d’odio che una metà prova per l’altra. Questi atteggiamenti sono espressione della paura del diverso, o meglio della difficoltà dell’accettazione del diverso. Questo confronto negativo nel Visconte culmina in un duello all’ultimo sangue: in nome di uno strano amore per la medesima ragazza, il Gramo e il Buono si battono con ferocia. Il rifiuto dell’altro porta alla violenza e all’autodistruzione. Sembra Calvino voglia spronarci a vivere più serenamente le relazioni, in un’ottica di comunione più che di timore arcaico e ostilità. Tra tutti questi personaggi inquieti, in una ragnatela di relazioni mancate, si muove agilmente il narratore, nipote orfano del visconte. Egli non ha un luogo né un ruolo a cui conformarsi: è un fanciullo che gioca nei boschi, l’aiutante del dottor Trelawney a caccia di fuochi fatui, il fattorino di Pamela, amico di tutti e sempre così solo. Uno spirito libero che, al ripristino dell’ordine, con Medardo nuovamente intero, in mezzo a tanto fervore d’interezza, si sente sempre più triste e manchevole e sentenzia saggiamente che alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane. Giunti alla fine del libro il giovane narratore chiude il sipario con una nota malinconica, lasciandoci a questo nostro mondo pieno di responsabilità e mezzi uomini.

Bibliografia: Il Visconte Dimezzato 1951 Calvino, Il gusto dei contemporanei 1987 Calvino, L’umorismo librario nel Visconte Dimezzato e nel Barone Rampante 2011 Lorenzo Carpanè, Il viaggio di Calvino: fiaba e racconto 1985 C. Bacchilega, Come un albero genealogico dell’uomo contemporaneo 2014 P. Fedrigotti.

Aprile 2024

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