NON C’È PIU’ NIENTE DA RIDERE

– Ma guardi la satira veramente corrosiva è sempre meglio della forza fisica.
– Ah, ma la forza fisica va sempre meglio coi nazisti. Perché è difficile satireggiare un tizio con le svastiche addosso.
(Manhattan – Woody Allen)

Ho visto la scenetta di Crozza che imita Sangiuliano piangente e pentito. L’ho vista con attenzione e mi sono accorto di una cosa: non mi faceva ridere. Ma non Crozza di suo, che è bravo e lo sappiamo, era proprio che non ci trovavo nulla di divertente nel parodiare un uomo che era già (e ben prima del caso Boccia) una specie di parodia di se stesso e un imbarazzo vivente. E allora ho realizzato che questa classe politica, che è per distacco la peggiore nella storia repubblicana, non fa ridere nemmeno quando viene derisa, e invece di fare la satira sui politici si dovrebbe farla sugli elettori. Però si sa bene che chi fa satira si sente in qualche modo superiore e la sindrome da club elitario in cui si parla male di tutti è costante. Molta satira politica è radical chic. Non a caso il premio internazionale di satira politica si tiene ogni anno a Forte Dei Marmi. Si badi bene, non è un difetto tout court essere radical chic. Quando Berlinguer parlò di “questione morale”, il significato che si attribuiva a quella categoria era ben preciso: era il tempo in cui la lottizzazione del potere aveva trovato la sua prassi nel “Manuale Cencelli”, e la spartizione di cariche e il clientelismo erano diventati piuttosto vistosi. Dopo il terremoto in Irpinia del 1980 il caso divenne eclatante. Gli aiuti ai terremotati non furono tempestivi e il governo non riuscì a controllare la situazione e Berlinguer decise che era quello il momento giusto per rompere definitivamente con la classe dirigente della DC. Gli scandali, la corruzione e l’amoralità, per il segretario comunista, erano i veri colpevoli della crisi. Fu in quel momento storico in cui Berlinguer spiegò la “diversità” del suo partito, rispetto agli altri. La svolta di Berlinguer inaugurata con la “questione morale” creò dubbi e malcontento all’interno del suo stesso partito: fu criticata da Giorgio Napolitano, ma anche da Alessandro Natta, allora vice di Berlinguer, che in privato disse: «Le cose sono dette in modo irritante: gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C’è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». Le parole di Berlinguer sono state interpretate e criticate anche oltre l’immediato. Alcuni hanno visto nella “questione morale” la comparsa dell’antipolitica, altri l’affermazione di una presunta superiorità antropologica dei comunisti rispetto agli altri. Ma per altri ancora, quello della questione morale e dell’etica pubblica divennero nuovi paradigmi politici. È una deriva che alligna storicamente a sinistra, prevalentemente nella sinistra aristocratica, intellettuale, alto borghese. Ma che poi, progressivamente, si è estesa a quasi tutto il campo della sinistra. Salvo di quella sinistra popolare e autenticamente rappresentativa di interessi sociali e popolari che, al contrario, punta solo e sempre a privilegiare la dimensione, appunto, popolare, sociale e autenticamente democratica nella fisiologica competizione politica. Ma questa esisteva quando i partiti erano ancora strumenti democratici, popolari, collegiali e che sfornavano politica e cultura politica e non grigi cartelli elettorali che si riconoscono nel “capo”. Oggi, molto probabilmente, quella superiorità morale e moralista è incarnata dal Movimento Cinque Stelle, che non a caso ha in Rousseau un idolo e faro.

Jean-Jacques Rousseau

Questa introduzione ci serve per arrivare al punto, per parlare di satira, visto che la satira politica, salvo rarissime eccezioni e neanche troppo felici (davvero c’è qualcuno che ride con Osho o Pio e Amedeo o prima ancora col Bagaglino?) è sempre partita da sinistra, almeno negli ultimi 50 anni; prima c’era anche l’Italia del “Mondo” di Pannunzio che era antifascista e anticomunista e per questo ancor più libera (e autorizzata) nel lanciare strali, ma quegli italiani là non esistono più da tantissimo tempo e questo è anche il tema di cui parliamo ma per non confonderci troppo torniamo alla satira a cui siamo abituati. È quella categoria della comicità che va alla ricerca del ridicolo nella descrizione di fatti e persone, servendosi della componente corrosiva e scherzosa con cui denunciare impunemente. La satira, storicamente e culturalmente, risponde ad un’esigenza dello spirito umano: l’oscillazione fra sacro e profano. Si occupa da sempre di temi rilevanti, principalmente la politica, la religione, il sesso e la morte, e su questi propone punti di vista alternativi, e attraverso la risata veicola delle piccole verità, semina dubbi, smaschera ipocrisie, attacca i pregiudizi e mette in discussione le convinzioni. La satira ha sempre avuto una matrice antisistema, dalle piccole cose paesane come Vianello e Tognazzi che irridevano Gronchi, a Lenny Bruce fino a Charlie Hebdo, c’è un vento di libertà che unisce chiunque “dileggi l’autorità” come citava la motivazione del Nobel a Dario Fo. Il tema però è un altro: ha ancora senso la satira politica? Evitiamo scorciatoie e andiamo dritti al punto. Davvero fa ridere scherzare su Sangiuliano, su Lollobrigida, su Salvini o su Toninelli? Fa ridere Donzelli? Suscita risate Soumahoro? Conviene fare battute su Claudio Borghi? E soprattutto, fino a che punto ha senso satireggiare la destra neo fascista? Ha scritto bene (come sempre) Guia Soncini parlando della Meloni ed equiparando il suo successo a quello di Taylor Swift, un trionfo tutto personale basato sul “sono come voi”. Ed ecco il nodo gordiano. Siamo noi, non loro. Scrive Soncini: “Proprio come Giorgia Meloni – e, parlandone da viva, Chiara Ferragni– Taylor Swift ha costruito il suo successo sul «sono proprio come voi». Non è come voi, naturalmente: è una multimilionaria con fidanzati famosi che fa dei suoi mollamenti fatturato (voi al massimo ne fate lagne social). Però conta sulle amiche, proprio come voi, non sa ballare, proprio come voi, rimugina tanto, proprio come voi. Se scrivesse capolavori, non sarebbe come voi”.

Il discorso da bar è arrivato al potere, la mediocrità è sdoganata, quelli “bravi” sono quelli che ce la fanno, mica quelli capaci. E sorvoliamo sul fatto che se leggi più di 30 libri all’anno (ma anche 20, pure 10) sei guardato come un pericoloso “professorone”. Il mondo al contrario è questo, altro che le abominevoli teorie del generale. E quindi nel mondo al contrario la satira politica, finché c’è “questa” politica, non è più utile e non ha più valore. Soprattutto se la si continua a fare nel nome della “superiorità morale” di cui parlavamo prima. Una delle funzioni principali della satira è quella di affrontare i problemi scomodi. Ma la satira presume che il pubblico abbia un cervello. E allora è illuminante la vignetta uscita sul corsera di venerdì scorso in cui Ellekappa si interroga così: “L’Italia avrebbe bisogno di una classe politica più colta, preparata e tollerante… risposta: Per rappresentare chi?” Ecco dove si deve, con estrema urgenza, andare a corrodere, a scalfire, a punire oltremodo: su di noi. Perché se ha ragione Guia Soncini (ed ha ragione!) il problema siamo noi, che siamo come siamo. Altro che superiori, siamo talmente colpevoli da meritarci la classe politica che ci rappresenta, per il semplice fatto che siamo come loro. E quindi bisognerebbe fare come il Pasolini dei “Comizi D’amore” ma stavolta andare nei supermercati, nei centri commerciali, nei luoghi di villeggiatura, lungo i navigli e negli aeroporti, e mostrare la gente, questa gente che poi siamo noi, votanti e non, che siamo come Matteo e Giorgia, che uno vale uno, che Beppe disse vaffa e noi eravamo un solo coro. La satira va fatta su di noi, ma mica dando il megafono alle piazze come facevano Santoro e Funari (due populisti della primissima ora) ma con la lente d’ingrandimento chirurgica del cronista e del fotografo. O come ha fatto ottimamente Andrea Pennacchi nel suo famoso video “Ciao terroni” in cui mostra se stesso come il tipico veneto medio, arrabbiato e ignorante quanto basta per rappresentare l’elettore nazional populista. Il messaggio funziona perché quando riconosciamo i nostri simili allora l’attenzione sale, si percepisce il problema reale, non c’è più quel distacco scenico che la farsa sui politici porta con sé. La satira fatta sulle persone è in questo modo deflagrante. Lo sapeva bene il grande pessimista Jonathan Swift quando diceva: “La satira è una sorta di specchio, e chi ci guarda dentro generalmente vi scopre qualunque faccia tranne che la propria; questa è la ragione principale della cortese accoglienza che il mondo le riserva”. Si deve quindi far capire che lo specchio ha la faccia di chi lo guarda e se iniziamo a guardarci allo specchio per davvero, prima magari ridiamo ma poi alla fine ci spaventiamo. E forse allora dopo si può ragionare seriamente. Perché per ora, di serio, c’è rimasto pochissimo, e non c’è proprio niente da ridere. Smettiamo di sentirci superiori, perché a forza di farlo abbiamo completamente smarrito la via che porta a capire chi vota in un certo modo. E iniziamo a sentirci tutti coinvolti e un po’ anche tutti colpevoli. E tutto questo in questi giorni in cui a Bruxelles un tizio che avevamo la fortuna di avere come Presidente del Consiglio (cacciato dall’attuale maggioranza) stende un rapporto di livello rooseveltiano e fa apparire il nostro dibattito sempre più superficiale e di terza categoria. Avete davvero voglia di riderci su?

Ellekappa. Fonte: Corriere della Sera

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