Andrea Pennacchi. L’Omero veneto tra capannoni, resistenza, riscatto e orgoglio. Gli spettacoli vicentini, l’intervista, il compagno Giorgio Gobbo. A tu per tu col Pojana.

Due serate da tutto esaurito al Teatro Comunale di Vicenza gli scorsi 21 e 22 gennaio e altre due date al Teatro Astra di Schio il 5 e il 6 Febbraio sono il pretesto per poter parlare di uno degli attori più significativi di questi anni. Uno che calca le tavole dei palcoscenici da trent’anni ormai ma che è arrivato al grande pubblico solo di recente, dopo una lunga gavetta fatta di esperienze prima col Teatro popolare di ricerca e poi con Gigi Dall’Aglio, oltre a tanti laboratori e lezioni spettacolo. La prima svolta è del 2011, anno in cui scrive ed interpreta lo spettacolo “Eroi” per la regia di Mirko Artuso e partecipa al bellissimo film di Andrea Segre “Io sono Lì”. Cinema e televisione gli spalancano le porte. La collaborazione con Segre diventa continuativa, ma lavora anche con Mazzacurati, Soldini, Sollima, e poi tanta tv con serie e telefilm, fino alle partecipazioni in “Propaganda Live” col suo “Pojana”. Appena prima aveva pubblicato il video “This is racism – ciao terroni” che aveva riscosso un grandissimo successo online. Era un veneto incazzato, rancoroso, geloso della sua villetta col “toco de tera” e del suo lavoro. Un veneto che rimpiangeva i tempi in cui schifava i meridionali in confronto al presente che gli porta in paese gli immigrati.

Il Pojana era nato. E con lui le lamentele. Parve subito infatti che qualche Veneto duro e puro si sentisse coglionato e invece qualche non veneto semplicemente non capisse. L’esposizione mediatica del programma di Diego Bianchi su La7 portò addirittura Zaia a lamentarsi perché “noi veneti siam mica così”. Va da sé che questo non fa altro che accrescere la stima verso Andrea e il livello del suo lavoro. In una tv banale e volgare, interventi come quello di Pennacchi sono deflagranti. È un grandissimo attore, e riesce a far satira mescolando pericolosamente realtà e parodia dentro al personaggio ma, in fondo, anche dentro a se stesso e a tutti noi. Non è solo (sebbene lo sia anche) l’Alex Drastico paleoveneto. Andrea è un Gargantua padano a 360 gradi, con i limiti e le enormi vette popolari di chi abita la nostra terra. Chi si sente offeso dalla figura che ne esce, dovrebbe pensare bene a cosa siamo in grado di diventare.

I due spettacoli portati a Vicenza sono “Mio padre” e “Pojana e i suoi fratelli”. Sulla carta due proposte lontanissime tra loro ma a scavarci dentro trovi molta materia comune. La storia del padre di Andrea, partigiano e prigioniero a Ebensee, è soprattutto un viaggio alla ricerca di un senso, di un motivo che ha portato alla pazzia mezzo mondo facendo sì che l’altro mezzo ci salvasse anche a costo della vita. Andare a ritroso nel tempo fa riscoprire i valori del partigiano “Bepi”, così come il lato oscuro dei tanti Pojana che abitano il Veneto rappresenta una presa di coscienza di cosa siamo e cosa potremmo essere. Un popolo che ha lottato per la libertà, che si rimbocca le maniche senza fiatare, che canta e beve e fa festa, può essere anche quello che ha in testa solo i schei, che ha paura del foresto e che deturpa il paesaggio con capannoni e casette tutte uguali da borghese piccolo piccolo? “Eroi” e “Una piccola odissea” sono invece andati in scena a Schio. Le vicende di Ettore e Achille protagoniste del primo e un intrecciarsi di momenti autobiografici con la storia degli eroi omerici fulcro del secondo. Anche in questo caso, è abbastanza facile vedere come tutto si lega assieme.

Incontriamo Andrea dopo la seconda sera vicentina. Sta lavorando molto ultimamente: cinema soprattutto, ma anche la nuova stagione di “Petra” con Paola Cortellesi, prossima alla messa in onda. Ci sediamo a bere un bicchiere, brindiamo all’anno passato dalla sua terribile esperienza col covid, e facciamo due chiacchiere. Con lui il fedele Giorgio Gobbo, chitarra e voce e spalla di Andrea in ogni suo spettacolo. Iniziamo da Pennacchi.

Il Veneto macchiettistico, il “comandi sior paron”, il Veneto di Goldoni, e poi quello di Felicetto Maniero. I veneti presi in giro da Oliviero Toscani, quelli che nei film fanno i servi o gli umili. Il Veneto del Commissario Pepe. Di stereotipi siamo pieni. Eppure ho l’impressione netta che il tuo lavoro ci stia affrancando, stia dando valore sia ai pregi che ai difetti, innalzando un popolo verso un diritto di cittadinanza nazionale più forte di prima. Almeno nella percezione mediatica. Il fatto che tu possa parlare di estremismi, anche di vere e proprie aberrazioni che compiamo nel nome del denaro o della difesa strenua della nostra identità, non cancella mai il sincero amore per questa terra e per questa gente che si sente arrivare da te. Cosa accade quando porti in giro per il resto del paese il tuo personaggio? Come viene vista la nostra terra secondo te? E come ci si sente ad essere il “veneto per antonomasia”?

Intanto ti ringrazio perché sta cosa del “veneto per antonomasia” titilla il mio ego, anche se poi sappiamo benissimo io e te che non xe completamente vero. Al di là di Paolini, di Balasso o di Giuliana Musso che, anche se è andata a rifugiarsi in Friuli è comunque di Vicenza, sappiamo che non sono l’unica voce veneta che porta sia l’amore che la rabbia in scena. Però son molto fiero di questa cosa che non manca mai nel mio lavoro l’artiglio della terra nel cuore e mi fa molto piacere si senta. Come diceva Caproni “più scavi in fondo a te più trovi qualcosa di universale che ti lega agli altri nomi”. Lo ripeto sempre perché è una grande verità. Pensa che a un certo punto, vado a portare il Pojana in Sardegna e i sardi mi dicono “parli in veneto ma sei il mio vicino di casa”. La maschera svela una parte precisa di territorio ma anche il suo essere parte dell’umanità. Questo ci mancava. Noi in Veneto non siamo bravi a raccontarci, a volte preferiamo siano le azioni a parlare per noi. Ma le azioni o le racconti o non dicono granché.

Come e quanto lavori sul linguaggio? Se da noi puoi parlare in lingua, come ti comporti “fuori”?

Lavoro tanto sul dialetto, in realtà il mio è un lavoro di costruzione su un dialetto che non usavo quasi più. Ho imparato ad apprezzarlo quando sono andato all’estero, ho avuto bisogno delle mie radici per apprezzare meglio quello che mi circondava. Poi ho trovato le parole di Meneghello che mi hanno aiutato. Mi son messo a lavorare con amore per questo dialetto che però ho anche un po’ costruito e questo ti permette di avere una libertà immensa perché puoi mescolare Ruzante con quello che hai sentito in osteria il giorno prima o qualsiasi parte regionale senza restare vincolato al proprio dialetto (il mio è padovano). Capitano anche cose buffe a volte, visto che ogni tanto tento di parlare in veneto nell’osteria davanti a dove son nato e qualche vecio che butta la carta dice “vero, lù non xe miga de qua vero?”.

Siamo un giornale locale e tocca la domanda obbligatoria. Come vedi Vicenza? Esiste una vicentinità che traspare in maniera chiara ad un padovano come te? In fin dei conti è una provincia ed una città che frequenti e conosci abbastanza bene, immagino.

Per me esiste una vicentinità nobile. Io, prima di Vicenza, ho conosciuto l’alto vicentino: Malo e Schio. Posti in cui mi son trovato benissimo e ho fatto dei gran lavori. A Schio ad esempio c’è una cultura teatrale pazzesca, non commisurata alla grandezza della città. Per me c’è una Vicenza che arriva fino alla città anche grazie al lavoro che state facendo voi, o Renzo Carbonera, o i ragazzi del Caracol. C’è una qualità di vita che lotta contro il torpore della provincia.

Teatro, lezioni spettacolo, laboratori, televisione, tanto cinema. C’è un filo che collega l’uomo all’attore nelle tue scelte?

Tutto è collegato. I laboratori, che purtroppo ora non ho più il tempo di fare, mi hanno dato ed insegnato tantissime cose. Una marea di energia, intanto. Mi hanno messo spesso anche in difficoltà su cose che davo per scontate. Il lavoro in carcere e quello di teatro psichiatria, son state esperienze in cui ho sentito l’utilità del teatro, che non era solo ambire a calcare le scene dei palchi importanti. Da lì nasce tutto il resto. Fare l’attore e raccontare storie sono esperienze collegate e parte della stessa matrice, cambiano solo le “dimensioni” della performance. Tutto nasce dal mio profondo amore per gli esseri umani in generale e per le storie. Io, prima di tutto, voglio sentirmi raccontare storie, o vederle al cinema. E se alcune storie che mi piacciono non mi vengono raccontate allora le voglio raccontare io. È tutta un’unica galassia.

Mi piace soffermarmi su una parte della tua esperienza lavorativa ed artistica, ovvero il percorso teatrale e sociale che hai fatto all’interno delle carceri. Vorresti parlarmene un po’? Io credo fermamente che la condizione delle carceri in questo paese sia un tema drammatico che in troppo pochi affrontano. Penso inoltre che tra 100 anni guarderemo al carcere come oggi guardiamo all’era della schiavitù in America. Come stanno quelle persone? Che creatività hai trovato dal punto di vista teatrale? E come ti poni su tutto questo?

Parlo molto volentieri dell’esperienza del carcere. È stata molto faticosa ma anche ricca di grandi soddisfazioni. Un momento in cui ti senti utile alla società, a questi esseri umani completamente abbandonati dentro ad una logica punitiva e che riscoprono di essere umani. Moltissime persone che son venute a vedere gli spettacoli che facevamo in carcere col “Tam Teatro Musica”, venivano profondamente toccate. Funzione principale del teatro carcere, soprattutto quando fai lo spettacolo per gli “esterni”, è di distruggere il muro che hai nella testa, che ti fa credere “a me questo non può succedere”, perché ti accorgi che, lungi dall’essere demoni o strane creature, sono esseri umani come te che han fatto degli errori. Credo che questa sia stata una delle lezioni più utili per gli esterni del teatro in carcere.

foto Alessandro Pittarella

Passiamo al maestro, al musico cantore e accompagnatore. Giorgio Gobbo ha una presenza scenica che non passa indifferente. Altissimo, barbuto, capello lungo, voce profonda. Pensare a Pennacchi su un palco senza Giorgio è praticamente impossibile. Musicista raffinato, abilissimo cantastorie, perfetto cesellatore delle parole e dei racconti del compagno di avventure. Si definisce un “contadino immaginario che suona la chitarra”, ed è un enorme piacere ascoltarlo.

Qual è il tuo rapporto creativo con Andrea? Come funziona la dinamica della collaborazione, come lavorate insieme?

Da un punto di vista strettamente tecnico la cosa è piuttosto semplice. Normalmente Andrea viene da me e mi legge o racconta il nuovo testo teatrale al quale ha lavorato, io lo ascolto e chitarra alla mano improvviso atmosfere e possibili canzoni. Il materiale che emerge in queste prime fasi poi viene ovviamente elaborato, integrato e modificato a seconda delle esigenze della messa in scena. È un metodo apparentemente spontaneo che si è affinato col tempo. Collaboriamo dal 2008 e la capacità di mettersi in sintonia si è costruito grazie ad una sperimentazione nell’ambito delle lezioni-spettacolo nelle scuole superiori. Per anni abbiamo girato negli istituti del Veneto proponendo progetti che hanno riguardato racconti divulgativi di popular science. Abbiamo navigato grazie alle vicende di Palladio, Galileo, Giorgione, Salgari, Nievo e la Spedizione dei Mille, Giuseppe Verdi. E poi ancora la Prima Guerra Mondiale, l’Iliade… Sto parlando di centinaia e centinaia di repliche nelle quali la capacità di improvvisare ed adattarsi ha costituito un bacino di know-how che ancora oggi ci torna utile. A questo si aggiungano le levatacce, le albe in autostrada in inverno e la fortuna di girare in lungo e in largo la nostra straordinaria Regione… Un percorso che ci ha rafforzato sull’idea che… sì, quello che facciamo è proprio ciò che vogliamo fare nella vita! Vale a dire raccontare storie, lavorare senza fronzoli alla ricerca della forza ancestrale della parola, del ritmo, della musicalità. E in ultima analisi restituire un senso di comunità a chi ci ascolta, accomunati dalle Storie; e animati dalla necessità di indagare noi stessi come singoli e come collettività.

La musica per il teatro e quella “libera”. Come cambia il tuo approccio?

C’è da dire che la musica “libera” in senso assoluto nel mio caso non esiste. Tutto è comunque legato al vincolo della necessità di raccontare, la mia creatività si muove dentro tale perimetro. Ciò che cambia sono gli strumenti utilizzati, o per meglio dire un diverso dosaggio tra parola parlata, parola cantata e musica. Rispetto ad una messa in scena teatrale, in un concerto o in un disco chiaramente il linguaggio della musica pesa di più. La musica è un mezzo di comunicazione meno esplicito e diretto rispetto ad un monologo d’attore, lavora sulla suggestione pura, sul “non detto”. Può aprire mondi che lasciano all’ascoltatore la possibilità di essere esplorati in modo autonomo, se chi ascolta ha voglia, tempo e modo di farlo. È questo, al contempo, la forza e la debolezza della musica che creo quando non sono al servizio del teatro.

Il Giorgio Gobbo oltre al Pennacchi. Parlaci delle tue collaborazioni, come quella con Matteo Righetto e altre.

Con Matteo ho collaborato a due progetti molto diversi. Nel 2019 ho lavorato alle musiche di scena di un suo testo teatrale (interpretato da Andrea Pennacchi) che raccontava i giorni della Tempesta Vaia nell’agordino. È stata un’esperienza straordinaria perché mi ha permesso di dialogare in scena con l’orchestra di Padova e del Veneto. Insieme a Carlo Carcano che ha curato gli arrangiamenti orchestrali abbiamo scelto di utilizzare solo gli archi: viole, violini, violoncelli e contrabbassi, strumenti figli dei boschi distrutti da Vaia. Nel 2021 invece, in piena pandemia, insieme a Righetto e al regista Marco Zuin abbiamo lavorato ad una web serie intitolata “L’anno dei Sette Inverni”, nella quale appaio anche in un episodio. Abbiamo girato a Colle Santa Lucia durante una nevicata epocale che si è protratta per giorni. Per questa produzione mi sono poi chiuso nel mio studio creando in solitudine una colonna sonora di tipo cinematografico. La musica che ne è nata è ispirata al tempo congelato del lockdown e ai giorni trascorsi in quell’aspro deserto di neve. Ho ricercato un effetto che fosse epico, mi interessava raccontare in musica la capacità di resistere, e il severo profilo dei giganti dolomitici Pelmo e Civetta, indifferenti al dramma degli uomini.
Altre collaborazioni che desidero citare sono quella pluriennale con la compagnia di Danceability “Ottavo Giorno”, con il poeta Lorenzo Maragoni, con Marco Gnaccolini e Francesco Gerardi con i quali stiamo lavorando ad un racconto sulla nascita del Milione di Marco Polo. E infine con la Psichiatria della Ulss 6 di Padova per la quale curo da un decennio un laboratorio musicale riabilitativo.

foto copertina Serena Pea

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