L’ARLECCHINO CONTEMPORANEO DI ANDREA PENNACCHI

Per chi ha vissuto la propria adolescenza negli anni ’80, Arlecchino era più Alberto Camerini che la maschera bergamasca. Un proto-punk di cresta munito, che saltellava danzante e cantava inni come “Tanz Bambolina” o “Rock and Roll Robot”. Un personaggio quindi che è sempre stato portato a sposare la modernità, a diventare declinazione di un’idea e non un totem intoccabile. Arlecchino di fatto è carattere molto denso e stratificato e si presta per sua natura a rappresentare modelli e simboli anche politici. Di certo ha intrinseche sfaccettature antropologiche. Perfino Dante nella Divina Commedia situa un “Alichino” nell’inferno, specificando che si tratta di una figura di demone capo a sua volta di una schiera di demoni. Col tempo questa origine è stata soppiantata lasciando spazio solo alle caratteristiche della stessa maschera. Si deve a Carlo Goldoni la sua “adozione” veneziana: fui lui infatti a lanciare la maschera con la commedia “Arlecchino servitore di due padroni”, con chiaro, sebbene velato, rimando all’accezione anticristiana del termine. Arlecchino nasce come servo povero, storicamente piuttosto infedele al suo padrone che diventa spesso l’obiettivo di burle, scherzi e imbrogli. Ricco di immaginazione è anche vivace, simpatico e irriverente anche se sfortunato e a tratti buffo. Sempre goloso, ne inventa di tutti i colori pur di mangiare. Si esprime solitamente con linguaggio scurrile e dialettale ed è noto per la sua agilità. 

Pochissime maschere possono essere buone per tutte le stagioni come Arlecchino. E Marco Baliani lo sa perfettamente, al punto di portarlo dentro ai nostri giorni e farlo dialogare con l’attualità. Andrea Pennacchi è un Arlecchino talmente improbabile da risultare perfetto. La sua maestria sta nella leggerezza e nella classe con cui danza in mezzo agli altri protagonisti della commedia, senza mai prevaricare eppur rimanendo centralissimo. Circondato da un cast di primissimo livello, con uno splendido Miguel Gobbo Diaz alle prese con tre ruoli, Valerio Mazzucato nei panni di Pantalone, Anna Tringali in quelli di Smeraldina, una Clarice tutta da ridere animata da Margherita Mannino e un davvero ottimo Marco Artusi che si divide tra Brighella e Florindo Aretusi. Arrivata a Vicenza dopo grandi successi altrove (con ben 14 repliche nella sola capitale), la compagnia capitanata da Pennacchi ha avuto una giornata probante dovuta alla sfortuna capitata a Maria Celeste Carobene, bloccata da una temporanea malattia e sostituita all’ultimo istante da una eccellente (soprattutto visto le circostanze) Elisa Pastore.

L’Arlecchino di Pennacchi e di Baliani riesce ad essere credibile e coerente sia con la sua storia centenaria che con il momento in cui è calato. La sfida era affascinante ma per nulla semplice: parlare di questi tempi balordi, tra razzismi, ritorno di ideologie che si speravano morte e sepolte, populismi e guerre, e farlo rimanendo fedeli alla commedia dell’arte, alla lezione di Strehler, e riuscire divertenti, anzi, molto divertenti. Sfida stravinta alla fine. I 100 minuti di spettacolo sono una gioia pura, con un plus fondamentale dato dalla presenza di Giorgio Gobbo alla chitarra e alla voce e di Riccardo Nicolin alla batteria, che con inserti abrasivi e ricamati, fanno da contrappunto a ciò che accade in scena. “Ve lo meritate Alberto Sordi” diceva Michele Apicella in “Ecce Bombo” e voleva dirci che l’italietta della media borghesia un po’ viscida e misera eravamo noi tutti. Ecco, sarebbe più giusto dire che ci meritiamo Arlecchino, perché è l’Italia del popolo, che si rappresenta, si denigra e si riscatta con la stessa felicità che trasmette. Un’Italia del passato, ma che si può riconoscere oggi dovunque.

Aprile 2024

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