POP/BEAT ITALIA. IN MOSTRA GLI ANNI CHE FORGIARONO LA MODERNITA’

La mostra che ha aperto in Basilica in questi giorni, non è “solo” un’esibizione di opere d’arte. Passeggiando tra le sculture, i dipinti, le pubblicazioni, ci si addentra giocoforza in un periodo storico definito, negli anni sessanta e settanta che hanno segnato il nostro paese in maniera netta, politica, anche violenta, e allo stesso tempo festante perché con in testa utopie, rivoluzioni, modelli impensati fino a prima. Indispensabile una riflessione su cos’ha portato a quell’atmosfera e a quelle ispirazioni. Innanzitutto la musica. Il rock and roll nasce a metà anni 50 e cambia il mondo come mai nessun’altra forma d’arte popolare aveva fatto prima. Ma il rock and roll viene dall’unione di folk e rhythm and blues e il blues a sua volta arriva dal gospel e ha forgiato il jazz. Quel jazz che permea la generazione dei primi beat, prima che poi i beatniks dei sessanta si sentano più vicini a Dylan che a Charlie Parker, per altro ormai passato a miglior vita. Il discorso sarebbe lunghissimo ma il punto è che se si parla di pop/beat, non si può non parlare di musica. E di cinema. E di moda. E di mass media. L’Italia esposta nella mostra curata da Roberto Floreani è quella della “Dolce Vita”, di “Carosello” e del boom economico. Che cos’è pop quindi?

What do you call that noise that you put on? This is pop! Yeah Yeah – XTC “This Is Pop”

Quando il genio assoluto di Andy Partridge scriveva questi versi lo faceva bambinescamente per portare l’ascoltatore dentro agli anni 50 immaginati con la classica nostalgia che si ha per i tempi che non si sono vissuti. Il pop non invecchia, non ha corpo votato al cambiamento, il pop è una ricognizione dell’esistente. Il rock and roll spaventava i genitori, questo bastava a renderlo rivoluzionario. Nel periodo post bellico, il sentimento di euforia era estremamente contagioso. Si veniva da un mondo dove l’arte canora era più che altro consolatrice. Frank Sinatra era già di per se quasi un ribelle e in ogni caso l’America viveva il maccartismo e la guerra fredda preparandosi al boom economico dei cinquanta che avrebbe definito la nascita di un nuovo pianeta: i giovani! Era difatti ovvio che il mondo lo facevano gli adulti e così la musica ma improvvisamente qualcuno aveva voglia di dire qualcosa perché sentiva di poterlo dire. E le parole comunicano disagi esistenziali del tipo: “sono stanco di rientrare alle 11”, oppure ”le tette di Mary sono la prova dell’esistenza di Dio” o anche ”avessi una Studebaker invece della bicicletta!” Ebbene si, d’improvviso ci sono i mezzi (in fondo è sempre stata una questione di mezzi) per dire le cose, c’è ricchezza, pace e la chitarra elettrica.

Le rivoluzioni sono dolorose, e forse proprio nel grado di dolore sta la misura del loro successo. “La rivoluzione è un atto di violenza”, diceva Mao, e anche se non si può dire che i primi rockers fossero gente violenta, si può in ogni caso leggere nel loro ribellismo una dimostrazione di forza, una consapevolezza nuova. Lo status quo vigente all’epoca ne uscì trasfigurato e improvvisamente anacronistico. Ma non come accadrà poi col punk, che oscillerà sempre (nella sua attualità così come nella sua storicizzazione critica) tra rivoluzione presunta e rivolta conclamata. Per il rock and roll il bisogno di fare “piazza pulita” era secondario rispetto all’elettricità e all’eccitazione della scoperta, della novità, della libertà materializzata in un progetto. La corrente principale in cui fluiva l’estetica che poi divenne l’identità del rock, era soprattutto il jazz, prima del 1954. I musicisti jazz del primo dopoguerra Americano, con le loro vite dissolute tra droga sesso ed abbandono, riassumevano meglio di chiunque altro il bisogno di spontaneità e liberazione. Ma allo stesso tempo erano un segnale della frustrazione che permeava le nuove generazioni. Uno stato d’animo che prima o poi sarebbe inopinatamente defluito nelle masse. La grande novità (una delle) del rock and roll fu proprio il valicare steccati sia culturali che razziali come nessuna forma d’arte popolare aveva ancora osato, e per di più senza generali al comando ma con gli avanguardisti più scellerati e perciò vincenti: i giovani, appunto. All’inizio la nuova cultura sembrò ai più una barbarie, e la conquista apparve in realtà un gioco al ribasso. La storia, invece, nel suo lavoro paziente, ha sentenziato ben diversamente, ribadendo come le rivoluzioni siano destinate al giudizio postumo. Lo scontro con le realtà esistenti, nei primi mesi, fu fortissimo e ci sono moltissime testimonianze, sia scritte che filmate, delle reazioni come minimo scettiche dei signori dell’epoca; negli show televisivi o nei rotocalchi ma anche nelle parole degli “intoccabili” come Sinatra che aveva forse subito intuito che la nuova onda lo avrebbe confinato nel limbo (pur sempre dorato) dei classici. Inutile aggiungere che al rock fu data vita breve, così come la si è data al cinema, all’arte astratta e al personal computer. Ci vuole tempo: “ci si mette molto tempo a diventar giovani”, diceva Pablo Picasso.

Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andar dove, amico?. Non lo so, ma dobbiamo andare. – J. Kerouak “On the Road”

Perché tutto questo parlare di musica? Perché senza la musica, la beat generation semplicemente non sarebbe esistita. Per Kerouac beat sta per beatitude, beatitudine. Una beatitudine indotta dalle droghe, dall’alcool, dalla velocità folle o dall’inerzia totale, dal sesso promiscuo o dalla spiritualità Zen, dalla solitudine o da un’esasperata vita di gruppo, dalla frenesia del viaggio, emblema di una ricerca che non ammette soste e non conosce mete. E dalla musica. Soprattutto dalla musica. Quel be-bop, espressione, per i beat, di una libertà ancestrale perduta e mezzo per identificarsi con i modelli esistenziali rappresentati dal mondo dei neri. E il messia, ovviamente, è lui, Charlie Parker. Ancora oggi, ciò che più colpisce nella musica di Parker è la continua rottura delle frasi, la discontinuità melodica e ritmica, l’alternarsi di impeto e quiete, l’incessante variazione dell’intensità dei suoni, la poliritmia, i tempi velocissimi, l’uso geniale dei silenzi. È un linguaggio che nasce dall’esperienza, non dalle accademie. Kerouac, riferendosi al bop, scrive che la musica è “la tua saggezza, i tuoi pensieri. Se non l’hai vissuta non uscirà dal tuo strumento”. I beat danno consapevolmente una struttura jazzistica al proprio stile. Il flusso ininterrotto del jazz e della scrittura è anche quello del viaggio. Suoni e parole sono territori da percorrere e da esplorare incessantemente, come le strade. Per il beat è sempre il momento di partire. Basta che con sé abbia della buona musica e dentro di sé una smania di esperienze e di ricerca che non si plachi mai.

Qualche volta la notte, questa oscurità, questo silenzio mi pesano. È la pace che mi fa paura, temo la pace più di ogni altra cosa: mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno. Pensa a cosa vedranno i miei figli domani… “Il mondo sarà meraviglioso”, dicono, ma da che punto di vista, se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto? Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato… Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori del tempo, distaccati… – Steiner, “La Dolce Vita”, 1960

La dolce vita fa da spartiacque tra il Fellini neorealistico e il Fellini che costruisce l’impalcatura dei suoi film su una base onirica. La dolce vita, tuttavia, non ha nulla di dolce, ma dopo averla vissuta da spettatori rimane una sensazione di amaro, di nostalgia e un vuoto pieno di tristezza. Scavando nei meandri di questa vita dolce, infatti, troviamo un mondo finto, pieno di gente cieca e vuota senza più stimoli. Uno dei personaggi sui quali ci si dovrebbe concentrare è Steiner, perché è proprio questo personaggio cosi tormentato e fragile una delle tante chiavi di lettura del film. “Conoscersi è morire” scriveva Pirandello ne “La cariola”. Fellini capisce che la modernità ha portato la noia dentro la vita borghese, ma non lo capisce come Moravia, non lo declina politicamente, il genio di Rimini ci mostra un’Italia mondana, nottambula, apparentemente spensierata, riscattata. Mastroianni ci vaga dentro senza meta come fosse nell’Inferno di Dante, ma è Steiner che capisce il senso del vuoto. L’unica via d’uscita è quella di saltare dal precipizio, di rompere le catene di questa vita per rinascere in una nuova dimensione, in cui l’arte e il suo ordine incantato siano pure, non contaminate dalla superficialità della sua società. Steiner salta nel vuoto perché non riesce a sopportare la cecità che lo affligge, perché non può dimostrare le sue fragilità, perché deve indossare una maschera e sembrare sereno, altrimenti sarebbe stato escluso, tagliato fuori dai canoni della “dolce vita”.

Noi, in quanto pubblico, in quanto soggetti condizionati, quel salto non lo facciamo, non ci viene permesso dal mercato, dai consumi, dal lavoro, dal superfluo. Non invidiamo Steiner in quanto suicida ma lo ammiriamo in quanto antimoderno. Ed eccoci finalmente dentro la mostra, perché tutto questo sproloquiare trova senso nel portarci qui, in Basilica Palladiana dove fino a fine giugno è in scena quel pop/beat che segnò l’Italia degli anni sessanta (soprattutto) e settanta, decretando le fondamenta di quella che noi ora chiamiamo modernità. La Pop Art pur avendo indubbiamente un Dna anglo-americano trova radici in tempi precoci anche in Italia, come storicamente testimoniato dalla Biennale di Venezia del 1964, che fece conoscere il fenomeno Pop all’Europa e premiò per la prima volta un artista americano quale Robert Rauschenberg. Quell’anno, nel Padiglione Italia vi erano opere di artisti come Mimmo Rotella, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Concetto Pozzati e Mario Schifano. Ma la Pop Art italiana, a differenza di quella inglese o americana, ha caratteri tutti suoi, è un’arte che potremmo davvero definire della “dolce vita” o del “boom economico”, momenti cruciali nell’evoluzione della società e del costume italiano del XX secolo. Il merito fondamentale degli artisti che si trovano nella mostra curata da Roberto Floreani, è stato quello di aver saputo interpretare i loro tempi, portando una ventata di rivoluzione e colore. La Pop Art non è stata dunque né una critica né un’assimilazione ai valori del consumismo. Bensì una declinazione del mondo che cambiava e delle nuove immagini che portava, attinte ovunque: dalle insegne stradali ai simboli del potere monetario, ai poster per strada, al cinema. Questi artisti oggi rappresentano la storicizzazione di un processo di cambiamento del costume e dei valori non solo estetici legati alla cultura pop, che avrebbe per sempre cambiato il nostro modo di vedere e sentire l’arte.

Ciò che la Pop Art vuole è desimbolizzare l’oggetto, dargli l’opacità e l’ottusa caparbietà d’un fatto – Roland Barthes

Pop/Beat – Italia 1960-1979 – Liberi di Sognare” è aperta al pubblico dal 2 marzo al 30 giugno.

https://www.mostrapopbeat.it/

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