Donna, uomo, patriarcato, dolore e troppe parole

Ma non dici niente? Mi chiedono. Come se fosse un obbligo. Come se “non dire” significasse fregarsene, rimanere freddi. Che pena e che tristezza questa società in cui si deve comunicare sempre e comunque. Il pensiero (così come il dolore) capita possa essere privato, intimo, silenzioso e non per questo irrispettoso. Ho visto le immagini di Vicenza con la piazza strapiena per la fiaccolata e ho pensato “bello”, ho visto i pianti, i social strabordanti di foto e poesie e preghiere. Tutto bellissimo, siamo civili, siamo una comunità, ci sentiamo partecipi. Ma servirà a qualcosa?

Alla fine, dopo un po’ di giorni, qualcosa dico, così alla rinfusa, senza schema, perché una cosa così complessa io non riesco a semplificarla, non riesco a vederla in un sistema di pensiero. La vedo nebulosa, infida, caotica, piena di controsenso. E in questo modo ne parlo.

Non ne posso più della solita solfa, ogni volta, ogni maledetta volta. Accade una tragedia e via con le reazioni: inasprire le pene (ci sono già, magari applicatele!), cercare un colpevole che possa rassicurare tutti perché non è colpa di nessuno se non del patriarcato, inventarsi soluzioni come un’ora estemporanea di dibattito a scuola, e non fa niente se alla fine serve a poco o nulla. L’educazione sentimentale (si fa, grazie a bravi insegnanti, attraverso le materie umanistiche già presenti nel percorso scolastico, senza ore in più) e l’inasprimento delle pene sono sciocchezze, stupidaggini belle e buone se non cambiamo paradigma e iniziamo ad affrontare il problema a monte e non a valle. Ma noi siamo così, siamo quelli del dopo, quelli che vivono i problemi sempre e solo a valle. E quindi ci occupiamo giustamente della martire ma non a sufficienza del martoriante, che è il vero soggetto da studiare se vogliamo affrontare il problema, se vogliamo davvero prevenire, se vogliamo davvero curare.

Io non so cosa dire, non ho soluzioni, non ci sono soluzioni al male. Ma mi chiedo: che cos’è l’educazione all’affettività? Noi dovremmo educare ai no, ai rifiuti, al fatto che non sempre ti va bene, al fatto che star male è normale, che devi soffrire, devi saper stare da solo, subire le assenze. E temo che invece ti insegnino che sei poverino e devi essere coccolato e che l’amore cura tutto. Che, santo cielo, è tutto vero, ma non è questo il punto. Non possiamo vivere in una società consolatoria. Il punto è che non sappiamo perdere, nel lavoro, nella vita, in amore. Sono i consumi che hanno cancellato le “realtà particolari” come diceva Pasolini, costringendoci ad un’omologazione coatta che poi subiamo quando ci sentiamo “fuori” dal gregge? Forse si. Forse è malattia mentale, disturbo della personalità. Forse anche. I ragazzi sono sempre più depressi, dicono. Usano benzodiazepine come fossero caramelle, dicono. Siamo nel secolo dell’ansia, ripetono. Sarà. Oppure la deriva politicamente corretta ha terminato con il privare di nerbo il carattere delle persone. E la vita parallela sui social, debordante, ha ridotto la percezione della gravità della vita reale, accrescendo l’incapacità di sopportarne l’insoddisfazione rispetto ai desideri. Io non lo so, ripeto, non ho risposte. Mi pongo però dei quesiti. Quindi è davvero colpa del patriarcato nel 2023? Sicuramente anche sì. Il patriarcato esiste e se anche ci dovessimo accordare sul fatto che non esiste più come due secoli fa (cosa senz’altro vera) possiamo chiamarlo maschilismo o discriminazione di genere o misoginia e il succo rimane identico. Io mi ricordo come l’ho imparato. Con gli esempi, con i comportamenti, con le liste di re, condottieri, politici, scrittori, poeti, tutti maschi. Il patriarcato è anche, per esempio, respingere la differenza di genere nel linguaggio, dopo la fatica che abbiamo fatto per marcarla; è dire che una donna che ha fatto due figli ha dato un contributo alla società. Quel che so è che per l’uomo è sempre stato tutto incredibilmente più facile e non possiamo sopportare davvero quelli che “io non mi sento colpevole” perché noi donne abbiamo cambiato qualcosa insieme e adesso fatelo voi! Quel che so, davvero, anche sulla mia pelle, è che è la donna, da sempre, è vittima di violenze sessuali e psicologiche, so che il femminicidio è un fatto reale, so che la disuguaglianza salariale tra donne e uomini persiste, così come la precarietà delle madri single e senza indipendenza non c’è libertà. Quel che conosco è la tendenza delle forze dell’ordine a minimizzare se non ti presenti con lividi e fratture (ma mi dicono le cose stiano migliorando). So che lo stupro diventa crimine contro la persona e non contro la morale pubblica nel 1996. So che il delitto d’onore e il matrimonio riparatore contestati nel 68 come incostituzionali, vengono cancellati nel 1981. So anche che rivolgersi alle donne ancora come fragili indifese, abbracciandole forte e coprendole di carezze, non serve assolutamente a nulla e a me, anzi, da donna, fa solo arrabbiare perché, di nuovo, il problema, il marcio, il tarlo, sta a monte. Poi vedo le manifestazioni e in piazza e ci sono donne convinte che “patriarcato”, “occidente” e “colonialismo” siano sinonimi, in quanto tutti rappresentazioni del male, anche se – nel 2023 – quelle occidentali sono le società meno patriarcali del pianeta e il sillogismo denota alcune falle logiche.

Poi c’è un’altra cosa che non mando giù. Stiamo parlando di mostri o di struggimenti? Perché chiunque di noi ha lasciato qualcuno in malo modo, ferendolo, e tutti noi ci siamo trovati anche dall’altra parte. Soffrire è normale. Lasciarsi è normale. La vita stessa finisce, è l’unica santa e benedetta cosa che sappiamo. Il tema della “fine” è il tema dei temi. Cos’hanno questi miserabili di uomini nella testa non lo so, ma il dubbio che non abbiano ben chiaro il concetto di “fine” ce l’ho forte. In generale, eh. In questa società dell’avere, del possedere, dell’acquistare, sempre meno consideriamo l’essenziale, che sta nel saper perdere, nel saper lasciare andare, nel sapere che sei anche solo con te stesso.

Ha ragione Paolo Giordano (come praticamente sempre) nel dire che quanto è accaduto a Giulia Cecchettin ha colpito l’immaginazione collettiva perché assomiglia a una crime story ben sceneggiata e perché così funziona purtroppo la nostra adesione emotiva alla realtà, e così funzionano i media. Però se da questo portiamo a casa qualcosa di buono ben venga. Io non sono andata in piazza, non ho scritto nulla sui social, non ho nemmeno commentato durante l’aperitivo con le amiche. Perché mi pareva un reality osceno. E forse mi sbaglio, molto probabile anzi. Ma le campagne di sensibilizzazione mi lasciano sempre molto fredda, è più forte di me. Spero di essere in errore, spero che ci sia una svolta culturale, che si inizi a parlare davvero agli uomini in maniera diversa, perché è a loro che va tutto questo ed è da loro che deve arrivare il cambiamento. Spero. Ma nei giorni scorsi ho visto lo schifoso reality del rientro in Italia dell’assassino e allora io non so se sperare sia sufficiente.

A questo punto chiudo con parole non mie, ma di una donna che dice cose sacrosante. Si chiama Kasia Smutniak e dice che: “Bisogna partire da un mea culpa collettivo, di voi maschietti. Figli, padri, uomini. Io non posso proprio pensare che siamo nel 2023 e ci stiamo chiedendo del senso della parola patriarcato, se esiste o se non esiste. Noi questi discorsi li abbiamo già fatti, li abbiamo fatti all’interno di relazioni familiari tra donne che si tramandano il sapere, tra le amiche, e poi non conosco una donna, me compresa, che non ha subito delle violenze, fisiche, psicologiche, economiche di qualsiasi tipo. Non conosco una donna che conosce una donna che non le ha subite. Pretendo, dagli uomini, un’analisi profonda di cosa vuol dire essere uomo, di cosa vuol dire amare, di cosa vuol dire essere compagno, marito, padre, essere in controllo, sentire di perdere il controllo, avere paura, avere dei dubbi, sentirsi non amati, non capiti, derisi. Francamente, noi donne lo abbiamo già fatto, da tempo. Lo abbiamo già fatto, parlando apertamente, parlando con le amiche, esponendo le nostre paure e debolezze, dubbi e dolori”.
Ora tocca a voi.

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