Il 19 luglio la band “Nick Mason’s A Saucerful of Secrets” si esibirà in Piazza dei Signori a Vicenza e sarà l’evento musicale dell’estate. In attesa del concerto ViCult vuole offrire una piccola panoramica sull’artista e sulla storia musicale dei Pink Floyd che ci aspetta dal vivo. QUI la parte prima.
Che musica è quella dei Pink Floyd? Molti rispondono d’acchito “psichedelia”, altri citano il progressive rock, altri ancora semplicemente il rock, quello classico anni settanta. Se la cavicchiano tutti con queste risposte ma il vero punto non è centrato. I Pink Floyd nascono essenzialmente come un gruppo blues e nel blues rimarranno le radici nel corso degli anni. Un blues che hanno di volta in volta sfigurato, inacidito, dilatato, ammorbidito, vestito di seta e portato in crociera, parodiato, innervato, ma sempre blues era. “Money” è un blues, per altro in tempo dispari (caso raro per i Floyd), “Shine on…” è un blues lento lento, “Us And Them” pure (con solo di sax che se lo fanno altri diventa subito Fausto Papetti), “Seamus” è un bluesaccio notturno con tanto di ululato canino, “Young Lust” è blues puro, “Have a Cigar” anche, insomma possiamo fermarci qui perché altrimenti dovremmo citare quasi l’intera discografia: i Pink Floyd fondamentalmente si sono sempre basati sul blues; stravolto, psichedelico, dilatato e geneticamente modificato, ma in fondo sempre blues. Già dal nome si capisce di cosa si parla visto che la sigla storica viene dall’unione dei nomi di due bluesman che Syd Barrett adorava: Pink Anderson e Floyd Council.
Roger Keith “Syd” Barrett amava il blues alla follia ma aveva in mente qualcosa di molto visionario: immettere nel corpo blues elementi stranianti come le nursery rhymes, dadaismo, improvvisazione jazz, distorsioni ed effettistica elettronica, la cultura hippy e i nuovi universi lisergici che LSD e droghe varie suggerivano alla sua generazione. Il tutto in un formato pop beat. L’influenza che le intuizioni barrettiane hanno avuto sulla storia della musica è enorme. Dopo aver registrato un classico come “I’m a king bee” (in repertorio anche Stones) e un originale di Syd dal titolo “Lucy Leave”, i Pink Floyd nel 1965 iniziano la loro avventura suonando in club e pub e proponendo quella musica allucinata con tanto di light show. Senza saperlo stanno percorrendo la stessa strada avanguardistica di un gruppo di New York nei medesimi giorni, che sposa però una estetica dark con la pop culture e la musica contemporanea, si chiamano Velvet Underground e faranno la storia della musica come e forse anche di più dei 4 britannici. Sono anni irripetibili. Agli inizi del 1966 le esibizioni del gruppo suscitarono l’interessamento da parte del Marquee Club e dopo pochi mesi inizia a diffondersi l’espressione Swinging London, coniata dopo un articolo della rivista Time del 15 aprile la cui copertina definiva Londra “The Swinging City”. La capitale inglese veniva identificata come la città più rappresentativa degli anni ’60 come Roma lo era stata negli anni ’50. Il 15 ottobre i Pink Floyd (che per il momento si chiamano ancora The Pink Floyd Sound) partecipano alla festa di inaugurazione della rivista International Times (IT) che si svolge presso la Roundhouse, e nel mese di dicembre si esibiscono in uno dei locali più all’avanguardia della ribalta londinese, lo UFO Club. È in questo periodo che arrivano i brani strumentali spazio-psichedelici come Astronomy Domine e Interstellar Overdrive, che indirizzano il gruppo verso le nuove sonorità barrettiane.
Il 1966 è l’anno in cui il genio di Barrett è al suo massimo ed è spinto verso quello che, con l’anno a venire, sarà il suo apice e al contempo la sua drammatica caduta. Syd è un genio, uno di quelli veri, fuori da ogni schema, spesso incomprensibile, residente in un’altra galassia, troppo avanti per poter essere ancorato a terra. Mason, Waters e Wright gli stanno dietro a stento ma capiscono che quella magia non deve perdersi. Lo capisce anche la EMI e nel ’67 tutta l’Inghilterra si aspetta il primo 45 giri di questa nuova sensazione britannica. “Arnold Layne” però, alla sua uscita lasciò insoddisfatti molti. Il testo bizzarro parlava di un travestito ladro di abiti e la musica pareva normalizzata rispetto alle fantascientifiche esibizioni dal vivo. Nick Mason ricorda: “Volevamo diventare delle pop stars, e pensavamo che quel pezzo potesse piacere ad un pubblico molto più vasto rispetto alla gente che veniva di solito a sentirci dal vivo”. In futuro la band raramente si preoccuperà ancora dei gusti delle persone. Già col secondo singolo le cose cambiarono e fu un trionfo. Si chiamava “See Emily Play” e rimane ancora oggi uno degli esempi più brillanti della psichedelia inglese.
Tutto è pronto per il primo album. Quando esce finalmente “The Piper At The Gates Of Dawn”, il 4 agosto del 1967, Syd Barrett è ormai un’altra persona. Mesi e mesi di abuso di droghe con viaggi in acido quotidiani hanno messo al tappeto la sua già fragilissima psiche. Nessuno saprà mai se Barrett sarebbe finito nello stesso modo anche senza LSD. Di certo sappiamo fosse un bipolare con problemi seri di schizofrenia e sicuramente la droga non ha aiutato. Ma quel diamante pazzo ha scritto e immaginato una delle musiche più libere, commoventi, fanciullesche e colorate di tutti i tempi. Quel primo album è il suo trionfo, che si conclude col capolavoro demenziale di “Bike”, una filastrocca sotto mandrax in cui Rog (come lo chiamavano gli amici di infanzia) dice “I’ve got a bike” e pare un bambino felice di ricevere una bici come regalo di compleanno. La psichedelia in fondo sta tutta lì: paradisi mentali per difendersi dalla cattiveria della realtà.
Ora però Syd è un problema. I comportamenti bizzarri che un tempo erano visti come parte del suo essere, ora sono talmente fuori da ogni logica che tutti attorno a lui iniziano a preoccuparsi. A volte si limita a fissare la persona davanti a lui senza proferire verbo, anche se questo è chi lo sta intervistando in diretta tv. Sale sul palco e non suona o si siede in disparte o addirittura scompare per poi riapparire in prima fila a godersi il concerto dei 3 rimasti a cercare disperatamente di far quadrare il tutto. Di lì a poco, Syd divenne gravemente malato, come forse egli stesso era riuscito a capire. Il fratello maggiore Alan tentò più volte di convincerlo a farsi controllare da un medico, ma la risposta di Barrett era uno dei suoi enigmatici sorrisi assenti. Cambiamenti del genere furono notati anche dalla sorella minore di Syd, Roe: quando lei lo aveva chiamato per congratularsi del successo avuto con Arnold Layne, Barrett si era dimostrato quello di sempre; quando lo andò a trovare per complimentarsi del secondo successo, ottenuto con See Emily Play, Syd non era più se stesso.
In “Jugband Blues”, Syd si chiede chi stia scrivendo la canzone. Il punto di non ritorno è ormai già passato. I tre compagni di avventura decidono di chiamare il vecchio amico David Gilmour (amicissimo anche di Barrett) per farlo diventare il quinto membro del gruppo. La speranza è che Syd si senta meno sotto pressione oppure addirittura possa limitarsi alla composizione, lasciando agli altri gli impegni in studio e dal vivo. Ma Syd non c’è più. Il secondo album sarà l’ultimo con lui e l’unico della storia dei Pink Floyd con tutti e 5 i componenti presenti. “A Saucerful Of Secrets” è un grandissimo lavoro d’equipe, in cui ogni personalità cerca di supplire al deficit causato dall’assenza/presenza del leader. La scaletta alterna composizioni di Waters ad altre di Wright (come la splendida “Remember A Day”) ad altre collettive come la superba suite che dà il titolo all’opera, una composizione di musica contemporanea di altissimo livello emotivo. Un trip allucinogeno diviso in tre movimenti che rimane forse l’esempio massimo e più ardito che la psichedelia abbia mai tentato.
Dopo aver tentato (fallendo) di scrivere nuovi singoli di successo come “Apples And Oranges” o la folle “Vegetable Man”, Syd Barrett viene letteralmente lasciato a casa prima di andare ad un concerto. I 4 vivranno per sempre con quel rimorso, ma il loro amico viveva già sul lato oscuro della luna, e non era colpa loro. I Pink Floyd dovevano continuare e dovevano farlo senza di lui. Con il 1968 finisce la prima parte della loro storia, forse la più incredibile, senza dubbio la più suggestiva.