Blackface – Dje Mario Freestyle, Schio, e la commercializzazione del disagio

Nel 1984, a Filadelfia, città americana da circa 6 milioni di abitanti considerando la sua area metropolitana, nasceva il Gangsta rap, che vide la sua massima affermazione verso la fine degli anni 80 a Nostra Signora la Regina Vergine degli Angeli, metropoli statunitense di circa 13 milioni di abitanti, considerando la sua area urbana. Il gangsta rap non è solo musica, è uno stile di vita, quello dei ghetti delle megalopoli. I testi, che parlano di bande di strada, spaccio, violenza di quartiere, droga, marginalità, omicidi, precarietà sociale assoluta e desiderio di riscatto esplicitato attraverso il crimine, descrivevano semplicemente quello che accadeva in quella realtà. Metropoli occidentali in cui la vita valeva pochissimo, in cui i bianchi o erano nemici o clienti del mercato, principalmente quello del crack e poi dei suoi surrogati o derivati. Roba tosta, vita tosta. Chi rappava quella musica era gente che viveva quella vita che cantavano, molti di loro sono morti giovani, di Aids, di overdose, uccisi in sparatorie o in agguati. Ne ricordo solo due: Eric Lynn Wright e Lesane Parish Crooks. Sono tra i più famosi.

Ma la storia del Gangsta rap riserva una chicca, che poi è la chiave di lettura per leggere il video di Dje mario freestyle, ambientato a Schio, comune di 38 559 abitanti, decimo comune della regione e il terzo della provincia di Vicenza dopo il capoluogo e Bassano del Grappa. Una cittadina di provincia del profondo nordest che, secondo il censimento del 2016 aveva meno di 5mila residenti di origine non italiana, la maggior parte dei quali Romeni, Serbi e Marocchini. Insomma, difficile considerarlo un ghetto black nel vero significato del termine, impossibile paragonarlo a Philly o a L,A., ma purtroppo, sotto un altro punto di vista, difficile paragonarlo anche a Vicenza. Ma andiamo con ordine.

Cosa successe al Gangsta rap americano che ne decretò la morte? Una cosa molto semplice: quel tipo di musica, quello stile, cominciò a piacere ai bianchi. Ma i bianchi, in America, avevano uno standard di vita diverso dai neri, anche i loser più gravi non avevano alle spalle l’inferno dei neri. E i bianchi che ascoltavano il Gangsta rap erano i più manipolabili, molti di loro appartenevano a una classe media o medio-bassa americana, erano giovani depressi e castrati da una cultura spazzatura che li portava alla massificazione. L’industria musicale si accorse di questo, capì che il Gangsta rap non era più una musica da neri fatta per neri, ma era una musica da neri che i giovani adolescenti bianchi amavano. E infatti i neri smisero di ascoltarla e diventò la colonna sonora di bianchi depressi che sognavano quello stile di vita, fatto di violenza e droga. Ma per loro, per i bianchi, era solo una questione di noia, difficilmente di necessità. Shakur pagò con la vita questa intuizione, che ebbe agli albori del Gangsta. Già nel suo primo album, del 91, “Young Black Male” parla esattamente di questo: “Mi hanno incolpato per le vendite. Per aver venduto le storie di giovani maschi neri”. Quelle storie diventarono redditizie perché diventarono poi a uso e consumo dei bianchi, i neri dei ghetti cominciarono a vendere perché le loro storie piacevano ai bianchi, e i banchi pagarono. E il Gangsta rap si trasformò in un prodotto per bianchi, che cominciò a narrare qualcosa fine a se stesso. Non era più un racconto, diventò una pubblicità. Divenne simile al quegli spettacoli di fine 800 o degli anni ‘20 in cui i bianchi si coloravano la faccia di nero, facendo schetch per divertire i bianchi (ne racconta Spike Lee in Bamboozled). La differenza tra quei generi di chiara matrice razzista – che si chiamavano Minstrel show o Blackface e il Gangsta attuale è che nei primi due erano i bianchi a imitare i neri, mentre nel secondo – il Gansta sono invece gli stessi neri a imitare lo stereotipo dei neri per venderlo ai bianchi. Hanno venduto bene, ci sono riusciti. E parliamo del mercato Americano. Non di Schio, dove il video ha 21.967 visualizzazioni, 220 pollici in su e una cinquantina di commenti positivi. Tutti di giovani bianchi.

Il video di Dje mario freestyle non parla della realtà. I soldi, le pistole, il machete, l’avvertimento e il regolamento di conti, non fanno parte di quella comunità, non fanno parte di quella vita. Non si sparano per strada a Schio, non ci sono batterie d’assalto con il machete, non c’è quell’atmosfera da banlieu cittadina. Dje mario freestyle tenta di fare un’operazione commerciale, ha imparato la lezione del Blackface. Più si parla di lui, meglio è per lui. E negli ultimi tempi si è fatto conoscere un po’ di più perché i media lo hanno cagato almeno per un po’, grazie ai soliti bacchettoni che gridano al pericolo per i nostri giovani. E quel video è tutto lì, una fantasia, un’operazione commerciale, che peraltro non si spinge neanche troppo in là. Un video che, come la canzone, esprime uno stereotipo fatto di montagne di soldi, armi per spartirsi i quartieri e vita da ghetto. Un’invenzione, a uso dei bianchi italiani annoiati, un messaggio vuoto, una fantasia preconfezionata che magari a volte viene ascolta (e speriamo che ti vada bene con le vendite…fra). Gli unici episodi di cronaca che avvengono a Schio, degni di nota, sono quelli della micro-criminalità legata allo spaccio e dei raid di quattro adolescenti che spaccano roba in giro o picchiano qualche malcapitato, credendosi i drughi di arancia meccanica o vivendo, appunto ghetti immaginari costruiti dalle canzoni di Dj mario freestyle. La cosa non è paradossale, nell’era digitale tutto si può inventare dal nulla, anche i ghetti che diventano effettivamente ghetti dopo che ne hai parlato. L’imitazione della realtà che diventa a tutti gli effetti reale. Niente di così strano, quindi.
Lo strano è che questa cosa succeda a Schio e non a Vicenza, che succede in un paese della provincia e non nel capoluogo. Eppure a Vicenza, piccola città di circa 120mila abitanti, ci sono almeno un paio di ghetti in cui la vita è per vari motivi più complicata. Ma la routine di questa città è entrata anche in quel meccanismo di marginalità. L’esistenza sembra dare il minimo. Il silenzio del centro cittadino e la vita standardizzata delle periferie mostra un sentimento di desolazione a tutti i livelli. Dalle strade del centro immerse nel nulla, in cui il rumore del vento alle dieci di sera si sente distintamente perché la gente in casa non produce nessun tipo di rumore, al mercato dello spaccio a Campo Marzo dove l’ultimo pusher va a caccia di clienti, fino ai bar dei quartieri con le loro storie di alcool o di giochi d’azzardo, chimera dell’80enne come della 20enne, Vicenza appare una città avvolta dal sonno. E, dispiace dirlo, si sente anche la mancanza di uno come Dje mario freestyle. In questa città non funziona nemmeno il Blackface.

Vivere a Villaga

Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna.

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