Esiste una dimensione altra, che non combatte per una propria indipendenza ma si mette quasi d’intralcio tra il vero e l’immaginato. In essa vivono sogni ancestrali e drammi terreni, abissi dell’animo ed eroismi ideali. Se l’esistenza fosse davvero riconducibile all’eterna lotta tra bene e male, allora, come Agostino, il nostro conflitto interiore non avrebbe fine, ed in quello stesso conflitto però troveremmo equilibrio, forse, giustificazione altrimenti. Se. Ma quel che viviamo non è sempre davvero vissuto. Quell’altra dimensione è presente tanto quanto l’insieme dei fatti. Entrare nella selva non più solo oscura ma invero buia come la notte senza stelle, è un colpo di dadi, uno slancio vitale di inaudita irresponsabilità. Ma l’audace spirito si cala quasi sicuro in ciò che non conosce perché sa, in fondo, che l’ignoto fa parte del noto, lo completa e ne è critica. Il visto e non visto, il detto e non detto, è andato in scena al Teatro Olimpico, portando i fortunatissimi presenti ben oltre Prometeo e la sua condanna, ben oltre Eschilo e quello che voleva o non voleva esprimere duemila e cinquecento anni fa. Di lui sappiamo fosse un nobile, combatté nella battaglia di Maratona e morì a Gela. Ma fu soprattutto il padre della tragedia greca. La sua produzione rifletteva la realtà circostante ma fu anche testimone della nascita della democrazia ateniese. E questo è il punto. Con ancora gli echi dell’assassinio di Thomas Becket da parte di un Re tiranno e dei suoi violenti sostenitori, ci troviamo davanti Prometeo incatenato, reo di aver concesso libertà e conoscenza all’uomo tanto da renderlo troppo simile agli Dei, e facendo infuriare Zeus. Le similitudini sono evidenti. Il filo rosso è la sfida alle autorità e alle imposizioni. Becket sfida il Re, Prometeo Zeus; nel ciclo classici 2022 troviamo la sfida per antonomasia che è quella di Romeo e Giulietta, ma anche Filottete che affronta il senso comune o la “normalità” ed infine il diavolo e il soldato in Stravinsky. Potere e contropotere, Prepotenza e ribellione. E quel senso di giustizia che nemmeno oggi riusciamo a vedere nel mondo.
Il Prometeo di Vacis, si diceva, è andato oltre al Prometeo che ci si attendeva. A volte il destino, bussando alla porta, apre nuovi scenari e fatalmente li migliora. Non siamo qui a dire che la pandemia ci ha dato una mano, ma senz’altro il fatto che metà cast fosse costretto all’isolamento, ha costretto una tale revisione della messa in scena, che ha permesso al regista torinese di impossessarsi della sua straordinaria capacità di cantastorie (no, non diremo storyteller) e tutto è diventato magico perché unico. Quante esperienze nascono da un’emergenza? E quanto importante è, non già l’emergenza in sé, ma il modo di affrontarla? Gabriele Vacis, a luci accese, siede sul palco dell’Olimpico, con i suoi ragazzi meravigliosi attorno, e ci racconta il Prometeo che aveva in mente. In questo modo davanti a noi si dipana una storia dentro la storia, come vedessimo il dietro le quinte del pensiero. Si inizia dal “Pyncher Martin” di William Goldwin, più precisamente da Luigi Meneghello che, recensendolo, folgorò Vacis facendogli capire che si vive per sempre anche morendo, che esistono attimi che durano all’infinito, che il dramma è fuori dal tempo ed è un altro tempo. E quindi l’impermanenza, l’attesa e la certezza della fine come salvezza. Chi davvero vuole vivere per sempre? Eppure, pur non accettando l’immortalità, diventiamo immortali. Vacis ci spiega che siamo storia perché siamo storie. Siamo tutto quel che è stato e quel che sarà, siamo fibra d’universo, magari non docile come cantava Ungaretti ma siamo storia di Dio e dell’uomo e i secoli e i millenni scorrono in noi.
La necessaria riduzione di organico ha costretto ad una svolta stilistica che è diventata un grandissimo momento di divulgazione culturale. Non sapessimo di esagerare, oseremmo dire che questo modo di narrare i classici pare ideale. Non esageriamo invece se diciamo che i giovanissimi attori della compagnia PEM sono stati semplicemente meravigliosi. Corpi che diventano suoni e visioni e parole. E quei cori. Una musica (perché di musica si tratta) che viene dall’inizio dei tempi e va verso l’ignoto. Ritmi e armonie vissute percuotendo il palco, roteando come aria nell’aria e intonando melodie di sconfinata bellezza. Per noi spettatori è stato un privilegio, un evento che ora è già memoria.