Giorgio Gaber, “Gli assurdi spostamenti del cuore”. Lo spettacolo di Anna Zago e Stefania Carlesso, con Thierry Di Vietri e Fabio Agosti.

Quando approcci un gigante lo devi fare con rispetto, attenzione e rigore. Non con deferenza, ma con la consapevolezza del livello con cui ti confronti, e quindi con la conoscenza dettagliata e l’opportuna misura. Allestire uno spettacolo su quel gigante (vero, indiscusso, mai troppo ricordato) che è stato Giorgio Gaber è quindi operazione ad alto rischio. La buccia di banana del didascalico è dietro l’angolo, così come l’agiografia o, peggio del peggio, il già detto, la banalizzazione. Perché Gaber è come un oracolo, dalla sua opera puoi cavare il senso dei tempi passati e futuri, puoi capire la nostra deriva, le miserie contemporanee e comprendere di più quale sarà il domani, considerando che i piedi, oggi, son poggiati su questo terreno così franabile. Gaber l’anarchico, l’incazzato, l’iconoclasta; Gaber il satiro, il cantautore disilluso, il politico che detestava i politici; Gaber che si chiedeva cos’avrebbe fatto se fosse stato Dio e si rispondeva che, alla fine, si sarebbe ritirato in campagna. Tante cose è stato eppure il filo conduttore della sua vita così come quello della sua arte è limpido e coerente. La libertà, quella rincorsa e desiderata, urlata, pianta e perduta. La libertà che è partecipazione e quindi andava cantata e spiegata, insegnata ai bambini. La libertà di essere liberi come un uomo, di provare a mangiare un’idea per fare la propria rivoluzione. È stato immenso Giorgio Gaber, dentro a quell’Italia dei sessanta e dei settanta, in cui le grandi utopie prima portavano speranza e poi crollavano a terra sull’asfalto come i morti ammazzati dai terroristi. Un’Italia politica, grigia, odorante di ciclostili e fumo di MS, dove la borghesia veniva vista con occhio giudicante, la classe operaia ancora esisteva e il “modello” di società non era uno e uno solo come ora ma veniva discusso, analizzato, teorizzato pure. Quando approcci uno così, devi farlo coi guanti bianchi. E Anna Zago e Stefania Carlesso (autrici dello spettacolo) hanno avuto la grazia e l’intelligenza di prendere un Gaber in particolare, quello intimo, quello dei rapporti interpersonali, quello degli “assurdi spostamenti del cuore” e tracciare, attraverso i suoi testi e le sue canzoni, un percorso narrativo che ci parla dei rapporti tout court e di come siano incredibilmente attuali le sue disamine.

Si inizia con un coniglio. “Grazie, grazie, no niente, stavo cercando un coniglio
Sì ci avevo un coniglio che vi volevo far vedere, mi interessava sapere cose ne pensavate. Chissà dov’è andato?
Boh, pazienza, prima o poi uscirà da qualche parte”. Era l’attacco di “Anche per oggi non si vola”, spettacolo, e disco, del 1974. Il coniglio che esce dal cilindro è il quartetto composto, oltre che dalla Zago e la Carlesso, da Thierry Di Vietri a voce e chitarra e Fabio Agosti, splendido al basso. Si inizia con uno dei maestri di Gaber, quel Jacques Brèl che in realtà segnò tutta la stagione dei cantautori italiani dei primi sessanta ma che qui viene interpretato alla grande da Di Vietri nella sua “Ce gens-là”, capolavoro assoluto di teatro canzone da cui Gaber deve aver davvero preso una fortissima ispirazione.

Noi e gli altri, io e te, io e me stesso. Questa è la trama dello spettacolo. E allora si parte. Anna e Stefania recitano l’incipit del Signor G. Due persone in una, o forse due persone a se stanti. Il confronto tra classi, tra idee, estetiche e aspirazioni. Un confronto, uno scontro, una perenne messa in discussione di tutto che è alla base del Gaber pensiero.

E da qui si parte dentro alle canzoni. Da “Il Conformista” allo “Shampoo” a quell’esempio incredibile di come siamo diventati che è dentro alla “Paura”. E non è difficile riflettere sul carattere generale di questi nostri tempi, in cui l’altro è nemico, in cui si diffida di tutto, in cui si chiude invece di aprire e si alzano muri invece di abbatterli.

Bravissimo Thierry Di Vietri nella successiva “Dove l’ho messa” che elenca sbadataggini surreali di un signor G. che smarrisce la casa, la mamma, l’Italia e si trova senza nulla. E quando non si ha più nulla ci si chiede se ha senso questa solitudine. E ci si risponde che “l’uomo non è fatto per stare solo”, da quel disco immenso che è “Polli d’allevamento”.

“L’uomo non è fatto per stare solo
E il suo bisogno di contatto è naturale
Come l’istinto della fame

E’ una cosa strana
Irrazionale e commovente
Che può chiamarsi addirittura
Amore per la gente”

E allora l’amore. L’amore come risposta, l’amore come necessità, l’amore come religione. Ma l’amore ha i suoi tempi, le sue strade, le sue lezioni da imparare. Quindi ci si interroga su “quando sarò capace di amare” e ci si immagina come sarà, come si starà. Oppure l’amore perduto di Cristina, che lascia l’uomo solo dentro ad una città che non riconosce più. Cosa si trova in fondo a questo viaggio allora? Se le relazioni sono corrose dal progresso, dal denaro, dalla politica; se il futuro non è quello che ci si immaginava; se anche l’amore tradisce, cosa rimane?

“C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia e il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada e nella piazza
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
Le case dove noi ci nascondiamo
Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo”.

Un’ora e un quarto di spettacolo calibrato, sentito, coinvolgente. Un omaggio ad un grandissimo ma anche una riflessione su tutti noi. Per conoscere chi siamo.

I successivi incontri saranno dedicati rispettivamente a Fabrizio De Andrè (sabato 22, con Di Vietri, Agosti e Simone Piccoli) e a Franco Battiato (sabato 29, con Di Vietri e Piccoli).

Per gli incontri musical-teatrali, biglietto unico a 10 euro. Prenotazione obbligatoria per tutti gli eventi e gli spettacoli: info@teatroscientifico.cominfo@theama.it oppure 0444 322525.

Ingresso consentito nel rispetto delle normative anti-Covid.

L’AB23 si trova in contra’ S. Ambrogio e Bellino 23 a Vicenza.

Aprile 2024

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