L’arte salva la vita, la cambia e la indirizza verso se stessi. É una costante catarsi, un gioco di scarto, un dialogo interiore. La storia artistica di Marco Dal Maso ne è esempio. Fotografo per necessità quasi viscerale, attraverso l’obiettivo si pone in relazione con gli altri e quindi con se stesso, sfidando le leggi delle emozioni. Nel suo portfolio non c’è solo uno spaccato di mondi eccentrici o ai margini, ma anche una ricerca personale basata sul confronto, sul riscatto e sulla consapevolezza di doversi mettere in discussione costantemente. Oltre a questo, Marco è un uomo curioso, e aperto al nuovo. Per lui non ci sono preclusioni di tematiche quando si tratta di affrontare un lavoro. Non è un artista statico, è in perenne movimento. Rappresenta, a ben vedere, uno dei cardini della fotografia, ovvero quello di essere una persona che vive il suo tempo attraverso la macchina fotografica, come fosse espressione del flusso dei pensieri stessi. Questa è la sua storia.
Come hai iniziato? Perché la fotografia?
Facevo un lavoro e una vita che non mi piacevano, quando un amico mi ha fatto conoscere la fotografia e ho trovato una speranza. La fotografia e l’arte mi rendevano libero in un momento in cui non trovavo più senso in quel che mi circondava. Era una boccata d’aria fresca, una nuova prospettiva. Soprattutto la figura del fotoreporter che gira il mondo per fotografare mi affascinava moltissimo. Una vita diversa, staccare col quotidiano, viaggiare e lasciarsi alle spalle tutto. Una sorta di terapia d’urto indispensabile. Di lavori, per così dire, “normali” ne avevo fatti molti, anche pesanti. Ero finito anche in fonderia e già quel tipo di lavoro in fabbrica rappresentava per me un’esperienza formativa importantissima. Ma evidentemente non sufficiente per placare il desiderio di libertà. Quando la fotografia entra nella mia vita, subito la collego al mondo del lavoro, al fatto di poter essere un mezzo con cui documentare certe vite anche estreme. All’inizio ho provato a chiedere lavori qua e là a giornali o studi fotografici e dopo poco ho iniziato la normale gavetta con gli immancabili matrimoni. Ad un certo punto però ho deciso di mollare tutto e con i pochi soldi che avevo ho fatto un viaggio in Asia: Thailandia, Laos, Sri Lanka e Cambogia. Per mesi ho lavorato sul turismo sessuale e sui profughi della guerra in Sri Lanka, un’esperienza molto forte che mi ha catapultato dentro ad un mondo che conoscevo ma non avevo mai visto così da vicino.
Dal Maso è un istintivo ma ogni scelta è calibrata in un suo percorso molto personale. C’è un suo mondo interiore forte che è presente nel suo lavoro. Una custodia emotiva che si manifesta nelle scelte estetiche. E pochi compromessi. Un fotografo per necessità, per un bisogno espressivo urgente, e per l’eterno dilemma artistico che ci porta a trovare noi stessi mentre indaghiamo sul mondo.
Tornato dal mio viaggio ho iniziato a proporre quelle foto finché non ho ricevuto una chiamata dall’agenzia internazionale “Nazca”. Era passato molto tempo e credevo ormai non mi rispondesse nessuno. Quando mi chiamò il direttore di Nazca Pictures fu un’emozione enorme. Entrai in agenzia. Avevo rischiato non avendo tante conoscenze tecniche e mi era andata bene. Il mio capo era impressionato da un lavoro del genere perché riconosceva quanto fosse rischioso trattare quei temi in Thailandia.
Rischiato sul serio, visto che ricevette minacce e si trovò in situazioni molto delicate. Ma questa è la naturale conseguenza del lavoro di fotoreporter e Marco lo sapeva bene. Un campo minato dove si cammina in punta di piedi, spinti dalla missione di portare a casa lo scatto della vita.
Non ero tecnicamente preparato e lo sapevo. In agenzia mi son confrontato con fotografi di altissimo livello e ho imparato molto. Dopo un anno ho fatto altri servizi tra cui uno sulla destra italiana, al raduno “veneto fronte skinheads”. All’inizio ho pensato anche di rasarmi i capelli e fare l’infiltrato visto che dopo aver telefonato per chiedere se potevo documentare il raduno, mi avevano detto di no. Al momento di decidere, mi son messo gel e giubbotto in pelle e ci sono andato. Era il 2008, e per un po’ ho seguito il filone del neo fascismo, documentando anche la commemorazione della marcia su Roma, e una pittoresca gita a Predappio. Questo lavoro è stato poi proiettato a Perpignan, al festival di foto giornalismo.
Eri in anticipo sui tempi. Adesso lavori del genere avrebbero anche più mercato. Qualche chicca da quell’esperienza?
Beh, ricordo che gli skinheads mi guardavano malissimo e mi sentivo costantemente in procinto di essere menato. Ma ero forte della mia adrenalina e del desiderio di fare un buon lavoro. Di certo fu “divertente” un altro reportage dell’epoca che realizzai dentro all’universo del sadomaso. Se vuoi una chicca, ti dico che scattai una foto a un tenente della Folgore che si faceva sodomizzare.
Potessimo mostrarla sarebbe oro colato. Ma non si può. Pazienza. Continua pure…
Improvvisamente i miei lavori iniziarono ad avere un certo seguito. Mi fu organizzato un giro di redazioni a Milano, tra Repubblica, Corriere, eccetera… le foto piacevano a tutti nonostante fossero forti e a tratti disturbanti, ma erano pur sempre dei lavori completi. Il problema è che al di là degli elogi non mi compravano niente e da lì partì un mio periodo buio. A Perpignan ero in mezzo ai più grandi fotografi del mondo, mi sentivo arrivato o almeno in rampa di lancio e ho pagato lo scotto della realtà. Era ancora lunga.
Dopo il buio torna la luce. Nel 2011 Dal Maso è in Albania alle miniere di cromo, a documentare lo sciopero dei minatori.
Stavo in questo paesino nel nord dell’Albania in cui nessuno parlava né italiano né inglese. Sono stato nelle miniere a meno 1400 metri dove si fa fatica a respirare. Fu un’esperienza fortissima con questi minatori in protesta per il contratto e in condizioni difficilissime, in sciopero della fame alla profondità di 1400 metri. Son stati giù almeno 5 giorni e io scendevo spesso a vedere com’era la situazione. Son rimasto là 3 settimane, vivendo di fatto con loro. Alla fine hanno ottenuto qualcosa ma ben poco rispetto a quel che chiedevano e le condizioni non sono certo migliorate.
Si è capito chiaramente che a Marco piace mettersi in gioco e vivere esperienze un po’ al limite.
Assolutamente si, soprattutto l’esperienza brasiliana. Prima di quella però ho fatto un servizio sul gioco d’azzardo nel 2012 dentro alla ludopatia. Quindi ancora le storture del mondo, sofferenze, perversioni, malattie. Nel frattempo lavoravo per “La Presse” e facevo cronaca. Poi arrivò il Brasile. Forse l’ultima mia prova nel fotogiornalismo. Volevo raccontare i mondiali del 2014 e là ho conosciuto un ex bandito delle favelas (era il gestore del posto in cui abitavo) che mi ha portato nella favela da cui veniva, il Complexo do Alemao. Da quel momento ci tornai varie volte, affascinato dal clima, e terminai col trasferirmi ad Alemao dove tutti sono o ex banditi o attuali banditi e spacciatori, che di fatto combattono contro la polizia. Con Mondiali ed Olimpiadi alle porte, il governo di Rio aveva pacificato le favelas entrando coi carrarmati ed elicotteri. Le favelas, in sostanza, sono un sistema governato dalla malavita che difende gli abitanti interni. Ogni notte sentivo gli spari tra la polizia e i favelados. I morti si contavano ogni giorno. Volente o nolente ero amico dei banditi e mi ritrovavo ai baili da favelas. Chi stava coi banditi era protetto, chi stava con la polizia e veniva scoperto, finiva bruciato vivo. Alemao era una favela pacificata mentre la favela La Galina no: là facevano feste bellissime con samba e i balli in mezzo a gente armata di mitra. Ad un certo punto conosco un ex bandito, ora diventato prete pastore, che voleva riprendere un’area e liberarla dalla malavita. Così una mattina anch’io mi trovo a partecipare ad un’irruzione per forzare l’ingresso alla zona con la polizia che sparava. Hanno sparato anche verso di me.
Perché dici che è stata la tua ultima esperienza come fotoreporter, diciamo, estremo?
Forse perché sentivo di aver raggiunto il livello di esperienza sufficiente e poi quando rischi la vita un po’ di domande te le fai. In ogni caso ora come ora, con una splendida bambina (Nina) nata 7 mesi fa, non ci penserei nemmeno. Dopo il Brasile iniziai a lavorare in altri ambiti. Soprattutto grazie ad Andrea Garzotto. Quindi aziende private, orafi, professionisti come lo Studio Albanese, settori diciamo più corporate, che poi è quello che sto continuando a fare. Dal 2016 con Andrea Garzotto ho fondato Ty-project (e l’anno prima weddingdresscode per i matrimoni).
Quali sono i fotografi che più ti piacciono?
Sono tanti e continuo a scoprirne di nuovi, o di vecchi che però non conoscevo. Nomi come Guido Guidi, Alec Soth, Georgui Pinkhassov, Antoine D’Agata, Martin Parr…
Dietro l’angolo cosa c’è?
Ho un lavoro sui contadini, i lavoratori della terra, che sto facendo e proponendo. Da tre anni sto lavorando sui paesaggi malati della Pianura Padana. Comunque non faccio distinguo, mi piace la libertà di espressione, non dico di no a foto di moda o di arredamento o di paesaggio o di gioielli come per l’azienda Fope. La fotografia è libertà.