SIRENE

All’inizio c’è il buio. Poi il vento. Un vento forte, che pare insinuarsi fisicamente nel luogo. Io penso a Fellini, al vento in Fellini. Nei Vitelloni, in Otto e 1/2, in Amarcord, e in quel miracolo scenico del Satyricon. Ecco, l’incipit di “Sirene” chissà poi perché, mi ricorda il Satyricon di Fellini. Quel senso di decadenza lasciva, misto a timore strisciante, spaesamento e attrazione. E la materia, la carne, i sensi, gli elementi. La storia del canto delle Sirene la sappiamo, non è certo qui che ha senso raccontarla. E nemmeno lo spettacolo, scritto e diretto da Anna Zago, ha ambizioni descrittive o almeno non le confessa. Siamo di fronte ad una suggestione, non ad una narrazione. La donna, le donne, le tre sirene (la Zago, Patrizia Laquidara e Stefania Carlesso) sono muse e mito ma minuto dopo minuto diventano sempre più amanti, mogli, madri, custodi dell’eterno femmineo, della colpa e della condanna, del sesso e del pentimento, della vita e della morte. Il simbolismo è scarno, la scena quasi nuda. Ma l’acqua, che è lo scoglio e la riva in cui attendere altri e nuovi Odisseo, diventa protagonista come già lo era il vento. Le sirene vi si bagnano, come in una tentatrice fonte battesimale. L’invito è esplicito e la vicinanza fisica col pubblico unisce in un rituale collettivo questa rappresentazione. L’uomo viene accolto, irriso, coinvolto, sedotto. L’uomo è presente anche nell’assenza, forse persino di più. Mentre la sirena/penelope tesse la tela che è il tempo, è l’atavica attesa che uomo e donna siano una sola cosa come nel sangue dell’eden. Non è uno spettacolo femminista, è uno spettacolo femminile. E non è neanche uno spettacolo. E’ un concerto per voci, di un trio che si concede con slancio onirico ed erotico. In questo, la voce e le melodie di Patrizia Laquidara sono fondamentali e di enorme presa. La Laquidara danza da ferma, crea nenie antiche ed ipnotiche e quando usa al pieno la sua splendida voce porta l’esibizione tutta al suo vertice indiscusso. Esco da teatro ancora col vento, che alla fine torna e non se ne va nemmeno dopo. Mi accompagna anche il pensiero che l’uomo e la donna non parlano. E allora penso a Tiresia, al vecchio Tiresia, che nella sua vita era stato sia uomo che donna. E soleva dire che quand’era uomo aveva l’impeto del mare, e quand’era donna l’amore della terra per poi capire che nel nostro pianeta, di fatto, c’è più terra che mare.

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