Una prima assoluta quella di sdisOré, in scena domani al Teatro Olimpico per il Ciclo dei Classici. Si tratta di una rilettura dell’Orestea di Eschilo, riscritta da uno dei maggiori autori del Novecento, Giovanni Testori, e interpretata da un corpo-voce del nuovo Millennio: Evelina Rosselli, co-fondatrice insieme a Caterina Rossi di Gruppo UROR, che ne firma la regia. Nella sua versione classica, l’Orestea è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Coefore, Eumenidi e seguita dal dramma satiresco Proteo, andato perduto, con cui Eschilo vinse nel 458 a.c. le Grandi Dionisie. Delle trilogie di tutto il teatro greco classico, è l’unica che sia sopravvissuta per intero. Le tragedie che la compongono rappresentano un’unica storia suddivisa in tre episodi, le cui radici affondano nella tradizione mitica dell’antica Grecia: l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del loro figlio Oreste che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera del tribunale dell’Areopago. L’Orestea rivista dal testo di Testori, vede in scena una sola attrice nella funzione di narratore e incarnazione di quattro maschere che sembrano fatte di pelle umana. Esoscheletri di insetti, marionette disperate, maschere rivoltanti e grottesche, indossate da Evelina Rosselli per ridare vita a Elettra, Oreste, Egisto, Clitemnestra, trasmutando di volta in volta la propria voce per indagare quattro universi sonori completamente differenti. Abbiamo parlato con Evelina Rosselli mentre è alle prese con le ultime prove.

Giovanni Testori significa assoluta centralità della parola. Come ti sei rapportata ad un autore così complesso e importante?
Un grandissimo autore, assolutamente. E pensa che questo testo l’ha scritto due anni prima della morte esattamente come Eschilo scrisse l’Orestea due anni prima di morire. Testori diceva che il teatro è una scatola che deve essere riempita di parole. Per me le sue parole sono fisiche, da mordere, sebbene non siano sempre riconoscibili. Ha coniato un vero e proprio linguaggio nuovo fatto di un misto di lombardo, francese, spagnolo, con un suono violento e viscerale e delle parole che affondano in sonorità antiche, arcaiche e quindi credo che davvero per lui la parola fosse tutto. Diceva che era la carne che doveva farsi verbo e non il contrari. In questo spettacolo abbiamo 4 personaggi che interagiscono a parole tra loro. La lingua umana è una spada acuminata di cui avere paura. Qui la parola è sangue.

Il ciclo dei classici del Teatro Olimpico ci accompagna da quasi ottant’anni dentro alla storia del teatro greco antico ma anche dentro alla rivalutazione del concetto stesso di classico nel mondo contemporaneo. Questo testo è una rilettura radicale di un testo classico. Credi sia questa la strada maestra odierna per riappropriarsi della tragedia greca?
C’è una ragione per cui tanti autori come Pasolini ad esempio, ritornano all’antica Grecia. Seppure la modernità vuole andare avanti, questa linea retta del progresso non coincide sempre con un’evoluzione. Il classico è archetipo e volendo o non, si ripresenta sempre e per fortuna aggiungerei. Io credo che l’essere umano ripresenti sempre le stesse istanze anche se in maniera diversa il che è terribile e banale al tempo stesso. La maschera poi è il mezzo classico per eccellenza e noi l’abbiamo ripreso e ricondotto ad una forma più riconoscibile per il 2024, ma la radice è sempre quella e la vicenda terribile di Oreste viene riletta e posta sotto una luce diversa magari anche più crudele di quanto non fece lo stesso Eschilo. Se le foglie dell’albero cambiano, la radice è sempre quella.

A proposito di classici. La maschera è protagonista assoluta nella classicità e lo è moltissimo in questo spettacolo.
Certo. In scena abbiamo due maschere e due marionette. Volevamo cercare di non stravolgere l’idea di Testori, e per iniziare c’è il fatto che questo spettacolo l’hanno sempre fatto solo degli uomini finora. C’è un monologante, che sono io, armato solo di una valigia come un saltimbanco del teatro classico e quindi io ho una valigia e la apro e dentro, di fatto, c’è tutto lo sdisOrè con i personaggi che hanno 4 voci diverse. In questo ha fatto un gran lavoro il sound designer Franco Visioli che porta l’elemento contemporaneo attraverso la musica elettronica. Ma sono le voci e le maschere gli unici elementi presenti e parlano attraverso una parola spiazzante. Le marionette riescono a collocare i luoghi della storia e la maschera secondo noi veicola meglio la vicenda. Il punto di rivoluzione è il monologo finale in cui ci sono solo io e le maschere vanno via e soprattutto c’è il tema del perdono che inserisce Testori e che la tragedia greca non prevedeva e penso che oggi sia un messaggio molto forte.

Come stai vivendo la tua prima esperienza all’olimpico di Vicenza?
Sono davvero molto felice di questa mia prima volta qui e ti assicuro che non pensavo di arrivarci. Quando sono entrata ho perso il fiato e devo ringraziare l’audacia della direzione artistica del festival. C’è un legame filologico tra la scenografia presente e questo testo e collocare qui questo spettacolo ha un valore immenso perché torni nel classico in maniera reale. Aiuta molto il pubblico a collocarsi in un altrove e io che sono piccola e ho solo una valigia proprio qui riesco ad aprire molto meglio il mondo grazie proprio alla scena
Raccontaci il lavoro del gruppo Uror
Il Gruppo Uror siamo io e Caterina Rossi. Ci siamo conosciute in Accademia a Roma e ci siamo trovate subito. Noi siamo il nucleo del gruppo. Lei è artigiana e ha costruito le maschere e le marionette. Insieme ci compenetriamo avendo interessi diversi. Per noi il teatro è “un altrove” e lavoriamo tanto con maschere e marionette anche per gli adulti perché per noi il teatro di figura non è solo indirizzato ai bambini ma anzi, sono maschere mostruose spesso. In ogni caso lavoriamo anche nel fantastico mondo dei bambini però il nostro intento è quello di sensibilizzare il pubblico a non fare distinzioni tra le categorie. Siamo in due ma collaboriamo spesso con altri come Camilla Piccioni e di volta in volta, a seconda del progetto, ci circondiamo di altre figure.

Sei laureata in filosofia con un tesi su Heidegger che è un filosofo che ha investito la sua ricerca sul tema dell’essere e del rapporto con le cose. Il legame con il tuo lavoro è enorme. Quanto ti ha aiutato o anche influenzato?
Io credo davvero sia tutto. Se non avessi fatto filosofia non avrei saputo approcciare e comprendere le cose, e capire la morte che è legatissima al teatro per la sua natura effimera. Io devo tutto alla filosofia perché questa forma di plasticità che il pensiero filosofico dà, ti permette di vivere il teatro più profondamente e io non avrei saputo vedere il teatro e l’esserci senza Heidegger e senza la filosofia greca per comprendere la tragedia. Il teatro ha una grande componente fisica ma non si distingue dal pensiero. La poesia poi “chiama” le cose ad essere, a diventare reali. Io credo sia abbastanza preoccupante che il pensiero logico sia l’unico pensiero considerato mentre è importante il pensiero che va al di là del raziocinio, il pensiero libero, anche surreale, anche onirico.
sdisOrè
Prima Assoluta
5 ottobre, ore 21
Teatro Olimpico, Vicenza