Il sogno americano promette a tutti un pezzo di cielo se solo ti alzi all’alba e stringi i denti, ma poi arriva la notte, e il lupo mostra i denti veri, quelli che sbranano i sogni prima che sboccino. È così che Igort, narratore a fumetti, ci porta nei meandri di I Dispacci di Delmore, un reading immerso in musiche, andato in scena, in prima assoluta, il 12 ottobre al Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, all’interno del ciclo dei classici. Non è teatro puro, né concerto, ma un flusso di parole e suoni che ti porta a fissare il mito del Grande Sogno attraverso gli occhi della controcultura – quella che non crede più alle favole hollywoodiane, ma le riscrive con inchiostro di rabbia e malinconia. Si parte da lui, Delmore Schwartz, poeta ebreo di Brooklyn nato nel 1913. Un ragazzo magro come un’ombra, con gli occhiali spessi e un cervello che divora libri, cresciuto tra le strade di cemento dove il Sogno Americano è un cartellone sbiadito che promette “qualcosa per tutti” ma dà solo illusioni a pochi. Nei suoi racconti, come nei sogni, cominciano le responsabilità, c’è l’America degli anni ’30 che si specchia in un cinema di quart’ordine: un padre e una madre che si corteggiano sullo schermo, ma fuori è solo la Grande Depressione che morde le caviglie, famiglie ebraiche che inseguono l’identità in un calderone dove l’oro è solo polvere. Schwartz lo vede, lo squarcia con la penna – introspezione psicologica, riflessioni sulla famiglia, sul Sogno che si gonfia come una bolla e scoppia lasciando solo debiti e deliri. È il poeta maledetto prima ancora di esserlo, influenzatore di giganti come Saul Bellow, che lo ruba per Il dono di Humboldt, o Philip Roth, che ne eredita lo sguardo ironico sul fallimento ebraico-americano. Lui muore da solo nel ’66, in una stanza d’albergo a Manhattan, paranoie e alcol come fedeli compagni, il corpo trovato da un addetto alle pulizie – il Sogno che ti eleva a stella e ti scaraventa nel bidone della spazzatura. Igort lo resuscita con dispacci vocali, frammenti di prose: il Sogno non è ascesa, è trappola, e la controcultura lo sa e lo grida nei vicoli bui. Da lì, il filo si snoda verso Lou Reed, il discepolo ribelle, nato a Brooklyn nel ’42, che Schwartz incontra al Syracuse e ne fa il suo fantasma personale. Reed, dedicherà a Delmore European Son e My House – omaggio e gratitudine, il Sogno Americano nella Wild Side, con prostitute e spacciatori come eroi dimenticati, l’ipocrisia del suburbio che si dissolve in eroina e luci al neon. Reed è la controcultura incarnata, il ponte tra il poeta e il punk – vede nel Sogno non libertà, ma catene dorate, e le spezza con amplificatori che ruggiscono contro il sistema.

Poi, le donne entrano in scena, Anne Sexton e Sylvia Plath, sorelle di inchiostro e pillole, nate negli anni ’30 da quel Sogno che prometteva uguaglianza ma le inchiodava al ruolo di mogli perfette. Anne, con i suoi poemi come Live or Die che vincono Pulitzer nel ’67, urla dalle pagine il doppio binario: il padre assente, la casa di periferia come prigione dorata, il Sogno che ti offre il frigo pieno ma ti toglie la voce. Lei lo combatte con confessioni crude, suicidi tentati come atti di ribellione, e muore nel ’74 inalando gas – il Sogno che ti soffoca piano, e la controcultura la santifica come martire, la sua penna un’arma contro l’ipocrisia borghese. Sylvia, un passo avanti nel ’32, con La campanula di vetro che squarcia il velo: l’America post-bellica, con le sue riviste femminili che insegnano a sorridere mentre dentro marcisci, il Sogno che ti fa laureare a Smith ma ti rinchiude in elettroshock. Plath lo vede come un mostro, il padre tedesco come eco di Hitler, il marito Hughes come traditore, e nel ’63 infila la testa nel forno – un addio che riecheggia nei campus, dove le ragazze bruciano i reggiseni e riscrivono il Sogno con sangue e rime. Igort le intreccia nei suoi dispacci come echi da manicomi dimenticati, e il filo rosso si tinge di rosso sangue: il Sogno Americano è maschilista, predatorio, e la controcultura lo denuncia con lacrime che non si asciugano.
Il viaggio precipita nel cuore sporco, al CBGB, un buco nel Lower East Side aperto nel ’75 da Hilly Kristal, dove il Sogno si fa punk e il puzzo di birra e sudore è l’incenso della ribellione. Doveva essere un bar per country bluegrass e blues e diventò culla del noise, con muri scrostati come ferite aperte, e lì gli artisti – Patti Smith che recita Rimbaud, i Television con le chitarre di Tom Verlaine, i Ramones che sparano tre minuti di caos contro il Vietnam e le banche. È il Sogno rovesciato: non grattacieli, ma seminterrati; non Cadillac, ma stivali logori; la controcultura che prende il mito dell'”opportunità per tutti” e lo ribattezzano “fai-da-te o muori”, dove il successo non è oro ma un album indie che ti salva dall’oblio. Igort ne parla come se il CBGB fosse un personaggio vivo, un refuso per “cabbage” ma vero tempio del fallimento glorioso.

E alla fine, i Suicide, Alan Vega e Martin Rev, che portano il Sogno all’estremo: synth minimali come lamenti elettronici, batteria che martella e accelera verso il precipizio. Vega, con il suo crooning da Elvis posseduto, urla l’ipocrisia – il Sogno che ti dà la moto ma non la benzina per scappare, la metropoli come labirinto di neon e disperazione. Sono la controcultura pura, punk prima del punk, che suona nei club come il Max’s Kansas City e influenza tutti ma resta underground, emarginato – il Sogno che ti promette rock’n’roll ma ti lascia con l’overdose (nel 2016 per Vega). Igort chiude con le loro ombre, ed è questo il filo, il Sogno Americano visto dagli esclusi, dai poeti folli e dai rocker sporchi, non ascesa ma caduta, non vittoria ma sopravvivenza rabbiosa. In I Dispacci di Delmore, Igort non giudica, evoca – con la sua voce immobile su musiche che paiono uscite da un jukebox rotto, un affresco sonoro che dura un’ora ma ti lascia con l’eco di notti insonni. È uno spettacolo intimo e la controcultura è il contrappunto che lo rende vero. Ala fine, come direbbe Dylan in una strofa dimenticata, il Sogno non muore mai – si trasforma solo in incubo, e Igort ce lo canta piano, con un sorriso obliquo.









