Venerdì 18 ottobre, Giovanni Lindo Ferretti ha tenuto uno spettacolo meraviglioso, accompagnato da Simone Beneventi alle percussioni acustiche ed elettroniche, al Teatro Olimpico di Vicenza per il ciclo dei classici sotto la direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. Non volendo (forse nemmeno potendo) scrivere una recensione normale, preferisco parlarne in un modo diverso. Se non ci eravate, perdonate questa mancanza, se invece eravate presenti, spero vi piaccia questa brevissima dedica.
Era insopportabile Lindo Ferretti negli ottanta col suo comunismo folkloristico portato in giro dal circo dei CCCP, col suo salmodiante punk padano, lo era ad inizio secolo con il suo “ritorno a casa” e la retorica del cattolicesimo ritrovato. Lo è ora e ci rendiamo conto che il suo essere insopportabile significa che non lo possiamo sopportare letteralmente, che il peso del suo essere, del suo esempio, se non parlassimo di un’etica che lui non ricerca, lui così tanto più estetico e finanche mistico, non la mistica politica ma quella disumana, oltre umana, di un cristianesimo povero, è troppo per noi; insopportabile quindi perché è come quella puttana di cui abbiamo voglia, nel segreto della nostra confessione che non facciamo nemmeno a noi stessi, e che carichiamo in macchina ma scarichiamo appena vediamo in lontananza un lampeggiante sospetto. Lui, il peccato originale ce lo sbatte in faccia come la colpa che il consumismo ha degenerato in dogma. Decennio dopo decennio i bisogni hanno sostituito vieppiù i sogni e una società in cui i consumi (quindi i bisogni) ti impediscono di sognare è una società che Ferretti non amava 40 anni fa e non ama adesso. Non lo sopportiamo Ferretti perché non possiamo permetterci di seguirlo. Perché è un desiderio tossico per noi puerili demagoghi del quotidiano inespresso. Oggi che il diritto civile oscura quello sociale. Dove le parole contano più delle intenzioni. E quando una parola diventa simbolo ma non porta a nessuna fattualità, lì il misticismo del silenzio di Cerreto Alpi è il bosco di Junger. Ma noi non ci vogliamo andare. Pronti a scattare in piedi ad applaudirlo e osannarlo come fonte di grazia, nemmeno abbiamo un decimo della forza che servirebbe per sopportarlo davvero. Non ce l’avevamo neanche con Pasolini, figuriamoci ora che siamo diventati quello che siamo diventati.
La fine della cultura contadina, la fine dell’artigianato ormai prossima, i servizi che servono nessuna produzione. Montagne di business sul nulla. Poi la tecnologia e l’errore di non capirla e lasciarci guidare da essa a scartare, a togliere, a rendere sempre meno necessario conoscere, esserci (dasein), applicarsi, partecipare (come diceva Gaber) e pian piano il tempo si è ridotto, la cultura è divenuta suppellettile ornamentale.
Abbiamo perso. Ferretti lo sapeva già quando cercava la linea ma la linea non c’era. Lo sapeva poi viaggiando in Mongolia, alenando la grazia ricevuta e infine sentendosi reduce. I comunisti, stolidamente affini alla quasi inesistente autocritica vera, lo hanno chiamato traditore. Lui era ed è un punkettone di montagna. L’eleganza del suo eloquio, misurato, canonico, profumato d’incenso e candele, è quella dei nonni, delle funzioni nei giorni feriali, del vespro, del tempo di Pasqua.
Cristianesimo delle piccole cose, arcaico, rugoso, cellula di energia, corpo che vive, piacere consapevole. Il ritorno come continuo ripetersi dell’assoluto. Tra i banchi delle nostre chiese, nei venti delle vette, negli orizzonti dei nostri campi, tra le nebbie di novembre, tra gli spari dei cacciatori, mentre le campane suonano in lontananza. Un popolo, una cultura che rimane millenaria, mentre noi scoloriamo in un algoritmo tiranno, carnefici di quel che ci appare talmente salvifico e a cui voltiamo le spalle. Quindi grazie Giovanni che ancora ora ci ricordi come un tempo il mondo sia stato giovane e forte. Odorante di sangue fertile.
Foto copertina: Roberto De Biasio