Dobbiamo davvero preoccuparci?

Siamo tutti più stupidi, leggiamo pochissimo, viviamo in un paese in cui cresce ogni anno l’analfabetismo funzionale. Ormai lo sappiamo, se ne parla agli aperitivi e alle cene, è diventato argomento con cui mostrarsi accigliati ma civicamente onesti e partecipativi. Poi finisce l’aperitivo, finisce la cena, e si va a casa senza aprire mezzo libro prima di dormire. Analizziamo bene la realtà che ci circonda. Proviamo a capire quanto grave sia questo momento, proviamo a darci una riposta alla domanda: siamo davanti ad un baratro?

Diversi anni fa “dottore” o “professore” erano titoli che davano pregio e risalto a chi li portava ed erano considerati portatori di stima indiscussa da chi non se ne poteva fregiare. Chi “sapeva” perché “aveva studiato” era da ascoltare, diventava esempio e traguardo. Nel secondo dopoguerra vi fu una grande rincorsa al benessere che non passava solo dall’obiettivo di farsi la 500 o il televisore ma anche da quello di riscattarsi socialmente e culturalmente. La civiltà rurale prima e la lunga dittatura dopo, avevano reso il paese vassallo del potere e portatore quasi esclusivamente di una conoscenza legata al suo ambiente specifico. La distanza tra gli intellettuali e il popolo era importante. Il dibattito sulla cultura aveva avuto i suoi inizi in Europa solo nella seconda metà del diciannovesimo secolo. La nascente industria culturale della stampa periodica aveva come proprio target elettivo il pubblico della classe media e in parallelo si celebravano i fasti del progresso scientifico e tecnologico e li si esibiva nelle esposizioni universali di Londra (1862) e Parigi (1889) con la costruzione della Tour Eiffel come simbolo. In quel tempo, la cultura della classe media dell’Inghilterra vittoriana, veniva presa da Herbert Spencer come riferimento assoluto dello standard di civiltà. Non serve dire come in Italia quello standard fosse lontano anni luce.

La nostra storica giustificazione rimaneva l’immenso e incomparabile patrimonio culturale. L’adagio era pressappoco: siamo il paese con più storia, più arte e più cultura al mondo, quindi anche noi per simpatia siamo meglio degli altri. Va da sé che stava in piedi poco o niente. L’alfabetizzazione di massa in Italia inizia ad avverarsi soltanto dopo il 1945. E questo è già un fatto che deve farci molto riflettere. Il paese prima era povero (in alcune zone poverissimo) e vi era quindi la necessità, per le famiglie, d’impegnare quanto prima i figli in lavori manuali pur di elevare il reddito famigliare. Il periodo di boom economico che seguì la fine della seconda guerra mondiale rappresentò un momento fondamentale per la vita del Paese e un momento di progresso sia sul piano economico che su quello sociale; l’avanzamento delle industrie, soprattutto al centro-nord produsse un diffuso benessere che favorì la frequenza scolastica, avviando così un processo virtuoso di alfabetizzazione finalmente di massa, un processo che trova pieno compimento negli anni ’60: è infatti in questo decennio che s’innescò quel circuito progressivo che portò le percentuali di analfabetismo a cifre trascurabili. Ma ci furono anche notevoli altri fattori che contribuirono alla sconfitta dell’analfabetismo in Italia, ad esempio la diffusione di mass-media come la televisione. E col passato potremmo fermarci proprio qui e pensare a cosa sia, oggi, la televisione e cominciare proprio con questo a darci delle risposte.

Ma prima di arrivare a qualsiasi conclusione, bisogna aprire una finestra sul presente comparandola al passato. Oggi, se studi e approfondisci, spesso vieni deriso, la frase d’obbligo in società è “ecco che è arrivato il professorone”. Il pressapochismo è divenuto una regola, i social sono uno strumento di sfogo collettivo e dentro agli sfoghi il pressapochista indignato si vanta di trovare notizie attendibili. La classe politica che un tempo mirava alla crescita culturale come strada maestra per la crescita sociale, oggi fomenta il populismo e cavalca la rabbia e allora i nemici sono gli altri: i negri, l’Europa, le banche. Il passo successivo è che allora si torna alla nazione, al fortino, al “mio”, al campanile, e i media ormai a livello anch’essi di cartacei o visuali social network, propongono articoli e programmi fatti di voci che urlano e opinioni non pensate. Il covid ha prodotto i negazionisti del covid stesso e i no vax. Il cambio climatico ha partorito quelli che dicono (anche dai seggi in parlamento o dai posti loro assegnati in tv) che il caldo è una non notizia. Ovunque vi è il rifiuto della complessità, che poi sarebbe la base della conoscenza. Personaggi grotteschi e tristi, con evidenti difficoltà di espressione e ragionamento, come Joe Formaggio (per rimanere qui in zona) e il generale Vannacci (per allargarci al nazionale) sono presi come esempio. La retorica del ventennio fatta di “Dio patria e famiglia” è tornata come quasi non se ne fosse mai andata. Attenzione, non si sta dicendo sia davvero tutto così, altrimenti faremmo pure noi del populismo. Quello che si vuole sottolineare che è il mondo si è davvero capovolto e il mainstream ora è questo e si inserisce in uno scenario sociale in cui la scuola è in una crisi serissima almeno da 25 anni a questa parte, la sanità anche e il caro vita aumenta e con esso le ovvie lamentele che però accrescono il livello di populismo e demagogia perché figlie di questo humus culturale di stupidità diffusa. Ecco, questo è il punto. Cosa si fa con la stupidità?

Investire in istruzione, nel sociale, nella divulgazione, in cultura. La risposta più ovvia e scontata è questa ed è anche disgraziatamente la più giusta, ma si sta facendo davvero o sono anche queste, come quelle dei retori del popolo, solo parole? Liberali, socialisti, progressisti, riformisti, intellettuali, paiono inermi e indifesi. Ma cosa si fa con la stupidità? Come si risponde? Nel concreto, nel quotidiano, se 2 o 3 persone su 5 la “pensano” come uno sgrammatico generale paranoico, cosa gli si dice? Come li si fa ragionare? Ma fosse solo questo, questa è la punta dell’iceberg. Sotto c’è un disastro che è la vera base del tutto. L’Italia, con il 53,8% di individui nella fascia d’età tra i 16 e i 74 anni che leggono giornali, informazioni e riviste su Internet, occupa la penultima posizione nella graduatoria europea, mentre la Finlandia occupa il primo posto con una percentuale pari a 91%. Non leggiamo più, un “grande lettore” oggi viene considerato uno che legge 10 libri all’anno. Una media da pianto. Evidente che questo individualismo cattivo, livoroso, da trincea sia figlio di tutto questo. Siamo tornati davvero a 100 anni fa, quando il primo grande populista prendeva questo paese di contadini analfabeti e lo portava pian piano verso il disastro? Dobbiamo davvero preoccuparci? A destra hanno ormai vinto definitivamente populismo e propaganda, mentre a sinistra la retorica del bene e della giustificazione sono l’altra faccia populista dello scenario. Di realismo, però, pare non esserci traccia.

Aprile 2024

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