“Basta sprechi”: la preziosa guida di Luca Zanon sulla lotta contro lo spreco alimentare.

Secondo il Sole 24ore lo spreco alimentare domestico in Italia vale 15,6 miliardi. Viene quantificato in 674,2 grammi pro capite, costa annualmente agli italiani 9,2 miliardi, secondo l’Osservatorio internazionale di Waste Watcher / Spreco Zero attraverso i dati del nuovo monitoraggio che, nell’agosto scorso, ha indagato i comportamenti dei cittadini di 9 Paesi del mondo. A questi si sommano 6,4 miliardi stimati attribuiti agli sprechi dell’energia per produrre il cibo, così come dell’acqua e delle altre risorse “nascoste”. Uno spreco complessivo dunque di 15,6 miliardi l’anno che in tempi di austery richiede di trovare soluzioni. Sudafricani e giapponesi i più virtuosi nel mondo, mentre statunitensi e cinesi sono per distacco i più spreconi. L’alimento più sprecato del pianeta è la frutta, segue l’insalata e il pane fresco. Per combattere questa tendenza che è allarmante e decisamente grave, occorrono policy pubbliche e nuovi patti tra le aziende. Esempio virtuoso è l’app Too Good To Go a cui aderiscono sempre più aziende alimentari. Di questi problemi e delle loro soluzioni parla un libro agile e diretto che si chiama “Basta sprechi” e che è stato scritto da un professionista del settore, il vicentino Luca Zanon, imprenditore ortofrutticolo.

Iniziamo dalle colpe. La causa principale dello spreco alimentare è ancora la sovrapproduzione o la responsabilità ora è dei consumatori?

Lo spreco alimentare è un fenomeno multifattoriale e non può essere ridotto a una singola causa. È vero che la sovrapproduzione, spesso una reazione a fluttuazioni impreviste della domanda o un modo per prevenire carenze, può risultare in quantità eccessive di cibo che rischiano di essere sprecate. Ma non è l’unico fattore in gioco. I consumatori, influenzati da aspettative estetiche o da etichette di scadenza che possono essere eccessivamente prudenti, a volte gettano via alimenti che sono ancora buoni per il consumo. La scarsa informazione su come correttamente conservare o riutilizzare gli alimenti amplifica ulteriormente il problema. La buona notizia è che la consapevolezza sta crescendo. Sempre più persone riconoscono l’importanza di affrontare lo spreco alimentare, non solo per ragioni ambientali ma anche sociali. Emergono iniziative innovative, come applicazioni per la condivisione di cibo o progetti di recupero alimentare, che mirano a combattere questo spreco.

Che ruolo ha in tutto questo la grande distribuzione organizzata?

La Grande Distribuzione Organizzata ha certamente delle sfide da affrontare. Una delle principali è l’equilibrio tra quantità e qualità. Mentre è comprensibile che la GDO voglia assicurare una fornitura costante, è essenziale non sacrificare la qualità in favore della quantità. La logistica, inoltre, richiede una gestione ottimizzata per garantire che i prodotti raggiungano gli scaffali nel momento giusto, preservando la loro freschezza. Infine, la gestione delle non conformità è cruciale. È fondamentale avere sistemi in atto per assicurarsi che prodotti leggermente imperfetti, ma ancora perfettamente commestibili, non vengano scartati inutilmente. La GDO ha un ruolo fondamentale nel nostro sistema alimentare e, con le giuste strategie, può contribuire significativamente a ridurre lo spreco.

Rispetto alla GDO, quale è l’importanza del libero mercato nella gestione degli sprechi?

Il libero mercato gioca un ruolo cruciale nella gestione degli sprechi. La sua dinamica di compravendita, scambio e le strutture logistiche e commerciali che lo sostengono sono fondamentali per garantire che la maggior parte dei prodotti venga utilizzata. Prendendo come esempio il settore ortofrutticolo italiano, possiamo notare come l’approccio di recupero alimentare e l’intervento del terzo settore dipendano in gran parte dai mercati ortofrutticoli indipendenti. Questi mercati non solo offrono le infrastrutture logistiche necessarie per il recupero alimentare, ma identificano anche le partite di prodotti adatte a tale scopo, attribuendo un valore tangibile ai beni e garantendo una distribuzione efficiente. Inoltre, gestiscono quelle non conformità che la GDO potrebbe non essere in grado di affrontare, differenziando ciò che è ancora buono da consumare da ciò che non lo è. In pratica, agevolano le dinamiche di mercato assicurando una distribuzione ottimale delle risorse. Più il mercato è libero, più efficace sarà la distribuzione dei prodotti che altrimenti potrebbero essere sprecati.

Qualcosa però si muove in senso prettamente concreto. Parliamo delle piattaforme di recupero sistemico come “Too Good To Go”

Abbiamo visto l’ascesa e l’evoluzione di piattaforme come “Too Good To Go”, ma non si tratta dell’unico esempio. Nuove soluzioni stanno emergendo, focalizzandosi su prodotti che, in circostanze normali, finirebbero nei canali di recupero alimentare. “Babaco Market”, ad esempio, ha ideato un’offerta unica: box preconfezionati di prodotti ortofrutticoli freschi, in particolare quelli che non rispettano gli standard estetici tradizionali, offrendoli a un costo ridotto. E cito ovviamente anche “PortoFrutta”, la piattaforma che io gestisco, che offre prodotto invenduto a prezzi scontati qui a Vicenza.

Quali sono i costi di gestione delle strutture che operano il recupero e la distribuzione degli scarti?

Le strutture che si dedicano al recupero e alla distribuzione degli scarti alimentari affrontano una serie di sfide, sia dal punto di vista logistico che economico. Pensiamo, ad esempio, ai prodotti freschi come carne e latticini. La loro natura richiede una conservazione continua in ambienti refrigerati, dalla raccolta fino alla consegna al destinatario finale. Questo significa mantenere una catena del freddo costante, che comporta un notevole impegno in termini di logistica e, inevitabilmente, di costi. L’efficienza temporale è un altro elemento chiave: un prodotto prossimo alla scadenza potrebbe essere raccolto la mattina e consegnato al destinatario nel pomeriggio, ma ciò richiede una reattività logistica impeccabile. Attualmente, la principale sfida è rappresentata dai costi. Mentre le strutture stanno gestendo volumi di prodotti sempre maggiori, garantendo al contempo una qualità elevata, i costi operativi associati sono considerevoli. Sebbene queste operazioni portino a un risparmio complessivo per la società, è essenziale trovare strategie per gestire questi costi in modo sostenibile. Una soluzione potrebbe essere riconoscere a queste strutture una quota del risparmio che generano per la comunità. Ad esempio, l’adozione di prodotti recuperati può aiutare le amministrazioni locali a ridurre le spese destinate alle famiglie in difficoltà, garantendo al contempo un servizio di qualità. Sarebbe quindi equo destinare una parte di questo risparmio a chi effettivamente si occupa del recupero, premiando in particolare chi lo fa con efficienza e dedizione.

Un grande passo avanti lo si è fatto con la Legge Gadda del 2016, una legge che ruota attorno a un concetto molto semplice: sprecare non conviene a nessuno, recuperare è un bene per tutti.

La Legge Gadda ha rappresentato un punto di svolta nella gestione delle eccedenze alimentari in Italia. Secondo me gli elementi cardine sono stati due: il primo è stato l’ampliamento degli alimenti donabili, con la distinzione tra TMC e data di scadenza. Se un prodotto ha superato il suo TMC ma è ancora entro scadenza, la legge Gadda ci permette di donarlo, cosa che prima non si poteva fare. Ha semplificato le pratiche; prima della Gadda bisognava fare una dichiarazione cinque giorni prima della donazione. Un’assurdità degna della barocca burocrazia italiana. Ora, sotto i 15mila euro di valore, non c’è più necessità di comunicazione preventiva.

A Vicenza c’è una realtà chiamata “Emporio solidale diffuso”, ce ne puoi parlare?

L’“Emporio Solidale Diffuso” è un progetto dell’associazione “Da Spreco A Risorsa” di Villaverla. Ha introdotto un approccio che credo rivoluzionario al recupero alimentare. Invece di basarsi su delle strutture simili a quelle del retail, come avviene per molti empori solidali, ha adottato un modello “virtuale”. Questo significa che i prodotti recuperati vengono accumulati in un unico centro, che funge da polo logistico, ma allo stesso tempo vengono distribuiti anche direttamente attraverso vari punti di ritiro sul territorio, da strutture che collaborano e che si organizzano per avere una modello che un po’ ricorda quelle delle grandi logistiche internazionali, con tutte le parti che arrivano “just in time”: appena il prodotto viene raccolto, il centro logistico dà indicazione di dove portarlo e preavvisa i punti di ritiro, che organizzano la distribuzione sulla base di cosa e quanto arriva. Così facendo si riducono i tempi di stoccaggio al minimo indispensabile, recuperando dal lato della freschezza e dei costi. Non è raro che un prodotto recuperato al mattino sia consegnato a chi ne ha bisogno nel pomeriggio, meglio di Amazon. La chiave del suo successo risiede in una logistica ben organizzata, supportata da una rete di volontari e veicoli adeguati. Questo modello, pur presentando alcune sfide, dimostra come l’innovazione possa trasformare il recupero alimentare, rendendolo più sostenibile e rispondente alle esigenze della comunità.

Come agiresti sulla TARI a Vicenza per sensibilizzare i consumatori?

Io non credo nello Stato Etico, che dice ai suoi cittadini cosa è moralmente giusto e cosa è sbagliato. Credo, piuttosto, che si debba cercare un allineamento di interessi. Ad esempio, attualmente la quota di rimborso sulla TARI per le aziende che fanno recupero alimentare, a Vicenza, è di 0.07 centesimi al kg. Considerando che dopo il COVID l’industria alimentare per il prodotto più “povero”, l’ortofrutta, paga almeno 0.30 centesimi al kg, si può intuire come questo valore non abbia nessun reale effetto incentivizzante. Meglio nessun rimborso che un rimborso di 7 centesimi. Io credo che andrebbe come minimo raddoppiato il valore, portandolo a 0.15€/kg. Credo sarebbe importante, inoltre, riconoscere un qualche tipo di compenso anche per l’ente che recupera, SE dimostra che il recupero è di qualità (prodotto fresco e sano, non bancali di pasta con le farfalle) e se dimostra che la gestione del recupero è operata in modo professionale (quindi rispettando tracciabilità e catena del freddo). Le risorse ci sono, perché l’utilizzo del prodotto recuperato comporta un risparmio non solo a livello di minore rifiuto generato ma anche nei bilanci dell’assessorato al Sociale che risparmia sull’acquisto di beni di prima necessità per le famiglie indigenti. Oltre all’ovvia esternalità positiva del far mangiare “bene” le famiglie in difficoltà: si dice che il cibo sano sia “cosa da ricchi”, ed in parte, purtroppo, è vero. Ma il recupero alimentare fatto bene può aiutare molto nel garantire una dieta equilibrata anche a chi non può permettersi le zucchine quando vanno a 5€ al kg.

Nel tuo libro dai consigli importanti per interpretare la differenza fra scadenza e TMC e far vivere i cibi più a lungo.

Nel libro si affronta con precisione la tematica della conservazione degli alimenti, mettendo in luce le differenze tra la data di scadenza e il Termine Minimo di Conservazione, noto come TMC. Mentre la data di scadenza rappresenta il momento entro il quale un prodotto conserva intatte le sue proprietà e, superata tale data, potrebbe non garantire la sicurezza alimentare, il TMC indica il periodo consigliato per il consumo di un prodotto. Tuttavia, superato il TMC, un alimento può ancora essere perfettamente commestibile, a patto che sia stato conservato nelle condizioni appropriate e non mostri segni di deterioramento. Un esempio pratico riguarda le farine e i cereali. Se conservati correttamente, possono durare 1-2 mesi oltre il TMC. Ma è fondamentale prestare attenzione, in particolare con le farine integrali o quelle a base di semi oleosi, che tendono a deteriorarsi più rapidamente rispetto alle farine raffinate. La presenza di muffe, odori sgradevoli o insetti come le tignole sono chiari indicatori che il prodotto non è più adatto al consumo. Per garantire la loro freschezza, è consigliabile riporli in contenitori ermetici e in luoghi lontani da fonti di umidità e calore. Anche l’acqua in bottiglia, un prodotto che potremmo considerare stabile, presenta delle sfide. Nonostante molte bottiglie possano vantare una durata di conservazione che supera ampiamente il TMC, è essenziale monitorare l’acqua per eventuali segni di deterioramento, che potrebbero manifestarsi anche prima della data di scadenza indicata. Infine, è importante sottolineare l’opera di sensibilizzazione portata avanti da entità come la Fondazione Banco Alimentare Onlus e Caritas Italiana. Queste organizzazioni hanno divulgato manuali che illustrano le differenze tra data di scadenza e TMC, fornendo preziose indicazioni su come consumare in sicurezza gli alimenti anche dopo il TMC. Un esempio concreto riguarda il pane confezionato, che può essere consumato fino a 7 giorni dopo il TMC, purché non presenti segni di muffa e la confezione rimanga integra. Comprendere queste distinzioni e seguire le raccomandazioni per la corretta conservazione degli alimenti rappresenta un passo fondamentale per prolungare la durata dei cibi e contribuire alla riduzione degli sprechi alimentari.

Hai provato lo “Sprecometro”?

Sì, ho avuto modo di provare lo “Sprecometro”. Tuttavia, come strumento, non mi sembra particolarmente utile. Il dr Manhattan direbbe che è utile “quanto la fotografia dell’ossigeno a un uomo che affoga.”. Questo perché lo “Sprecometro” si rivolge principalmente ad un pubblico che è già sensibilizzato sul tema del recupero alimentare. Se il nostro obiettivo è veramente quello di ampliare la platea e raggiungere un pubblico più vasto, dobbiamo pensare in termini diversi. Iniziative come TooGoodToGo sono fondamentali in quest’ottica. Queste piattaforme sfruttano un incentivo economico, il risparmio, per sensibilizzare il consumatore. Attraverso queste iniziative, si crea un allineamento di interessi tra consumatore, azienda e ente che si occupa di recupero, permettendo una maggiore consapevolezza e sofisticazione sul tema dello spreco alimentare. Se queste iniziative non dovessero essere sufficienti, l’unico intervento pubblico ulteriore che vedrei con favore sarebbe l’introduzione di una forma di imposta pigouviana (metodo di governo delle emissioni inquinanti ideato dall’economista inglese Arthur Cecil Pigou, ndr), magari gestita su modello del CONAI. Questo tipo di imposta avrebbe lo scopo di internalizzare le esternalità negative associate allo spreco alimentare, incentivando comportamenti più sostenibili da parte di consumatori e aziende e finanziando, come fa il CONAI, la corretta gestione del recupero alimentare.

Il libro di Luca si può acquistare qui. Tutto il ricavato andrà in beneficienza.

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