CROCI DI VETTA, TRA EMOZIONE, CULTURA, FEDE E POLEMICA

Durante il mio early morning walk, un giorno sì e uno no, di buon mattino mi affaccio alla lapidea balaustra del Piazzale della Vittoria, a Monte Berico; dopo uno sguardo dall’alto alla città ancora dormiente, la vista scorre sul profilo delle amate montagne di casa, unite dall’ideale sottile linea rossa della mia Trans D’Havet, e la memoria va alle croci delle loro vette.

La prima è sulla bigemina cima del Summano, enorme di calcestruzzo, con un artistico Cristone di lamiera a cui han fortunatamente tolto le lampadine degli occhi; tradizione vuole che arrivati su, prima ancora di tirare il fiato, si facciano tre giri intorno per buonaugurio e scaramanzia. Per arrivarci c’è anche una Via Crucis, con tutte le sue quattordici stazioni erette per donazione di varie famiglie, enti o ex voto, su una stradetta che sale a dolci tornanti da Santorso, percorsa dai runners che vogliono farla “tutta correndo” invece di sbacchettare dritto per dritto sulla direttissima; la metà strada del Prà Minore è ormai da tutti conosciuta e nominata come Consola Le Donne.

Il Cristo del Summano

In secondo piano, oltre l’orlo dei Colletti di Velo, c’è una esilissima e mirabile struttura reticolare in tubi flangiati sullo Spitz di Tonezza; sul Melignone dovrebbe essercene una di legno; niente croce invece sul Campomolon, ché la stazione della vecchia seggiovia, il forte austriaco e la selva di antenne non concedono spazio; il Toraro non è propriamente una vetta, piuttosto un piazzalone asfaltato eredità della guerra fredda, ma sul sasso più alto ha la sua brava e robusta croce di legno; la Croce di Toraro vera e propria, invece, è più sotto, su uno sperone affacciato all’orrido della Val di Tovo, dove anche il Monte Tormeno ha la sua; a metà strada ce n’è un’altra, piccolina, fatta con due rami di larice; in fondo, per ultima, quella del Monte Maggio guarda in faccia ai roversi del Pasubio e già al Trentino.

Spitz di Tonezza
Toraro

Tornando in primo piano si incontrano la croce del Brazome, benedicente le contrà del Tretto; più su la croce del Monte Giove, detta di Sandy Marton, fatta con tubi di pluviale e rivestita con rettangoli di specchio, strana memoria per un luogo dove “per quatro siori meso mondo se gà scanà”; più arretrato il traliccione del Priaforà a guardare Arsiero e davanti, sul Novegno vero e proprio, un traliccio un po’ più piccolo e più aggraziato a dominare la città di Schio; niente croce sul Rione, solo fortilizi e antenne, ma sul Caliano la sua dovuta cosina in tubo di ferro c’è.

Monte Giove, la croce di “Sandy Marton”

Più avanti si è finalmente in Pasubio, e sul bastione meridionale ci sono una croce sul Grattanuvole, una sul Forni Alti e una sul Cimon del Soglio Rosso; non c’è, stranamente, una croce sul Palon, la cima più alta del massiccio, solo un cubo di tubi di ferro, forse il primo modulo di un’incompiuta? Non lo so, ma più sotto, sul Soglio dell’Incudine, una importante croce metallica di relativamente complessa fattura veglia sul confine tra Veneto e Trentino, e se non ricordo male anche sulla Pria Favella ci dev’essere un qualcosa.
Oltre il Pian delle Fugazze c’è una croce su in Cornetto, con la campanella al centro e la scatola metallica del libro di vetta al piede, più in là sul Baffelan una leggiadra cosina in tubo e, a vegliare su Campogrosso, la Madonna della Sisilla.

Novegno

Si entra quindi nel cuore delle Piccole Dolomiti Vicentine e sulla guglia del Lovaraste che domina Recoaro c’è una croce in doppio tubo metallico, arrivarci non è proprio agevole e vuole un pajo di passaggi delicatini, ma la vista è impagabile; lassù mi è capitato di vedere l’aquila in volo da sopra, più bassa di me, e quel davvero piccolissimo spazio della vetta, oltre il quale si precipita nel dirupo, fa sentire tutta la nostra piccolezza di uomini terreni. Sull’Obante c’è solo un ometto, ma poco sotto, dove il sentiero che costeggia fino a Bocchetta Fondi attraversa una secondaria forcelletta, c’è una crocina che guarda in faccia al Carega, con i fiori di plastica sempre nuovi e un tubo metallico con coperchio, cementato nella roccia, per i fogli dei passaggi; anche poco sopra Bocchetta Fondi c’è un’altra croce che guarda giù nel boale di là e verso Campobrun di qua. Su cima Mosca da qualche anno han piantato un palo con la punta dipinta di rosso fluo, immagino possa essere di riferimento per l’uscita, quando fumiga in tarda mattinata, per quelli che salgono i vaji e le vie del versante settentrionale, ma è facile che prima o poi qualcuno ci attacchi un traverso. La croce più in alto di tutte, quella di Cima Carega, che condivide lo spazio della vetta con un massiccio punto trigonometrico, è diventata per amore il monumento funebre di Cristina Castagna, con le foto, le dediche e le bandierine tibetane; proseguendo sul dorso della Costa Media una Madonnina dà il nome all’omonima cima e un palo con bandierine segna Cima Tibet.
Sulla vetta del Plische c’è una croce, sulla vetta vera della Zevola un’asta con bandiera e sull’attigua anticima, praticamente alla stessa quota, di là del Vajo dell’Acqua, c’è la croce, sul Gramolon la croce è completa di campana e tabella.

Plische

Non so se ci sia qualcosa sulla Bella Lasta o sul Mesole, ma sulla Cima di Campo D’Avanti c’è la croce che amo di più: son due spezzoni di profilo a T, arrugginiti quel tanto da proteggere il ferro dell’anima; è alta non più di una cinquantina di centimetri, piantata nella soffice terra nera, d’estate le erbe la sovrastano e lei quasi si nasconde, però è davvero sul punto più alto, su quel metro quadrato che non ha altro più in su che il cielo; la conoscono in pochi: qualche forestale, qualche cacciatore di frodo, forse qualche pecoraio, qualcuno come me che ama ravanare fuori dai sentieri segnati e i volatili che talvolta da là decollano col parapendio; ogni volta che salgo le dò due ben assestati colpi sulla testa con un sasso, per tenerla ben piantata e salda.
Sulla cima del Campetto di recente qualcuno ha piantato un qualcosa fatto con due sci e sull’omonima sella la classica di legno con gli spioventi saluta i viandanti. La Cima di Marana è la punta di una lama di coltello stagliata contro la pianura, su di essa vi è un bel basamento circolare in pietra che regge una crociona di legno massiccio orlata di striscie a led alimentate da un attiguo pannello solare. Ai piedi del monte, sotto la Malga Realto, l’ultima della serie veglia sullo Zovo di Castelvecchio e su Valdagno.
Ci sono poi le dorsali collinari che dalla pianura salgono verso l’arco delle Piccole, separando la Val Leogra da quella dell’Agno e quest’ultima dalla Valchiampo. Anche là le croci non mancano, da quella dietro casa dei miei a Creazzo a quella dei Massignani a Faedo, dal Verlaldo alla Civillina, quelle bellissime sopra Monte di Malo e Monte Magrè di legno esile con i diagonali per reggere e gli attrezzi picà via, da quella di Castelvecchio a quella del Nogareo, ma son davvero tantissime, e sarebbero troppi i sentieri da percorrere per poterle contare tutte.
Le principali sono ventotto (se non ho contato male), distribuite su un arco lungo grossomodo ottanta chilometri, una ogni tre chilometri o poco meno; in linea d’aria il Summano dista diciotto chilometri dalla Marana, sul filo dell’orizzonte le ventotto croci sono una ogni seicento metri.

Prà minore del Summano

Io quelle croci le conosco di persona, le ho toccate con mano, più volte. Alcune le amo particolarmente per diversi motivi; a certe altre ho legati momenti, belli o brutti, della mia vita; ci sono quelle che mi hanno fatto capire che una sottile intuizione di ingegneria strutturale ha a che fare più col divino che con la scienza delle costruzioni; certe mi hanno semplicemente fatto tirare un sospiro di sollievo per aver ritrovato la via nella nebbia densa, altre mi han fatto respirare orizzonti da ubriacare gli occhi e piangere lo spirito; alcune forse le vedrei meglio sostituite da qualcosa di, ehm, come dire, più francescano e, davvero, non sopporto i selfie delle scimmie appese ai bracci, ché credenti o non credenti, il rispetto, o quantomeno la buona educazione, sono qualcosa a prescindere.

Tolto qualche sparuto anarco insurrezionista che sale in vetta armato di motosega (è successo in passato, succederà altrettanto rarissimamente in futuro), tranquilli, contrariamente a quanto hanno scritto certi giornali e sbandierato falsamente a proprio uso un pajo di cattolicissimi ministri pluridivorziati, confondendo la parola “basta” con la parola “togliere”, la parola “nazione” con la parola “fede” o “religione” (di cui “identità” o “cultura” son solo lontanerrimi corollari), nessuno, me compreso e men che meno il C.A.I., ha mai detto o pensato di buttarle giù.

Ma senza scomodare i colti e pacati ragionamenti di Marco Albino Ferrari e di Pietro Lacasella, di un alto prelato, di un professore di diritto dell’Università Cattolica e di una emerita ricercatrice qual è Ines Millesimi alla presentazione del suo libro sulle Croci dell’Appennino, usando invece solo una onesta dose de bònsènso, a tutti quelli che, dopo le recenti polemiche, hanno rivendicato un presunto diritto di erigere altre croci chiedo: dove diavolo volete piantarne, che ce ne sono ovunque, su ogni cocuzzolo, e la conca di Recoaro così come Valli del Pasubio paiono quasi un cimitero?

E ancora, se domani la cospicua comunità indiana delle valli dell’Agno e del Chiampo, da Recoaro alle Alte, da Crespadoro a Lonigo, gente che ha minimo la residenza, spesso la cittadinanza, gente timorata del proprio Dio, che si guadagna il pane col sudore della fronte, con i bambini che vanno a scuola e parlano in dialetto, così numerosa da affittar capannoni per celebrare le proprie ricorrenze religiose, ecco, se quella comunità, che costituisce un buon x percento della popolazione locale, decidesse domani mattina di sedere un Buddha dorato in cima, chessò, al Castrazzano o sulle Ofre, co’ femo?

Da un po’ di tempo l’ISTAT nei periodici censimenti non chiede più la religione di appartenenza. Googlando qua e là tra stime e sondaggi i numeri di grosso dicono che, tra gli italiani, un 10% è cattolico socialmente attivo (nelle associazioni, nei movimenti, nel volontariato et cetera), un altro 27,5% è praticante ma senza coinvolgimento (cioè va a messa alla domenica, ma per conto suo), e fa 37,5%; altrettanti per arrivare al 75% non praticano, e sono da tiepidi a indifferenti; un 25% (non 2,5 o 0,25) infine è ateo, agnostico, spiritista, satanista, terrapiattista, musulmano, buddhista o altro, uno su quattro, non uno su quaranta o uno su quattrocento. Dati questi numeri, e considerato che i più vanno al mare e non in montagna, è ragionevole pensare che a una buona metà della gente delle croci di vetta non gliene possa fregà de meno. Con queste premesse le croci di vetta resteranno se i giovani caiani preferiranno l’olio di lino cotto e il segasso alle disquisizioni sull’affilatura dell’ultima picca da piolet traction, rimarranno in piedi se i veci alpini coinvolgeranno nel loro spirito le giovani reclute, altrimenti non saranno quattro fanatici a segarle, ma semplicemente la natura e il tempo, indifferenti alle pulsioni umane.

Dololmiti, sopra Corvara

Poi, e sprattutto, totalmente ignorata da chi cavalca queste polemiche in maniera distortamente ideologica, c’è oggi in maniera del tutto trasversale una sensibilità ambientale molto diversa da quella di cinquant’anni fa. Per la croce astile più alta d’Europa che dovevano tirar su in Baldo, a giovamento dello scheo dei gestori della funivia e dell’annesso ristorante, un sindaco è andato sotto processo per abuso d’ufficio e, dopo l’azione civile di vari gruppi, fortunatamente l’han messa giù a Spiazzi. Oggi per costruire con quattro assi un capanno per gli attrezzi devi presentare venti pagine di relazione paesaggistica alla Soprintendenza e sperare che ti vada bene; ci fosse da elevare una nuova croce sopra i millesei non sarebbe tanto il C.A.I. a dover dire la sua, quanto piuttosto la Soprintendenza che, notoriamente, non è tenera in tal senso. E, infine, in che posizione dovrebbe porsi rispetto ad una nuova croce un ambientalista cattolico praticante?

Ecco perché, quando il mio amico Pietro Lacasella sommessamente si chiede se la società attuale possa ancora rispecchiarsi interamente nel simbolo della croce e, soprattutto, se abbia ancora senso innalzarne di nuove, alla luce delle diverse sensibilità contemporanee, prima ambientali e poi spirituali, dandosi la dubitativa risposta di “probabilmente (pro-ba-bil-men-te) no”, io penso che non abbia tutti i torti.

Maggio 2024

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