Piergiorgio Piccoli: il teatro come ricerca di umanità

Se del teatro, e dei teatranti, avete un’idea romantica, o avventurosa, o se vi vengono in mente scene boccaccesche vissute in turné intrise di bohème, forse dovete rivedere le vostre opinioni, o perlomeno non le dovete applicare alla figura di Piergiorgio Piccoli. L’uomo è di pacata saggezza, sereno disincanto e orgogliosa consapevolezza. Fa teatro da più di 40 anni, ne ha viste davvero tante, forse troppe, per essere ancora persuaso dai sogni. Forse serve rifarsi a parole altrui per iniziare questo articolo. Uso quelle di un grandissimo, August Strindberg: “Già da un pezzo mi sembra che il Teatro, come l’Arte in generale, sia una «Bibbia Pauperum», una Bibbia con figure per chi non sa leggere né la scrittura né la stampa; quindi, credo che il drammaturgo sia un predicatore laico che divulga in termini popolari le idee contemporanee, in termini così popolari che il ceto medio, quello cioè che riempie i teatri, può comprendere senza sforzarsi troppo di che si tratta. Il teatro allora è sempre stato una scuola popolare per i giovani, per le persone di media cultura per le donne, per coloro in pratica che dispongono della peculiarità inferiore di ingannare se stessi e di farsi ingannare, ossia recepire l’illusione e la suggestione dell’autore. Oggi, tuttavia, quel pensiero volgare ed incompiuto che si rivelava attraverso la fantasia sembra evolversi in riflessione, ricerca, sperimentazione, ed il teatro, proprio come la religione, mi è parso, sta per decadere, agonizzante forma estetica, per l’apprezzamento della quale non abbiamo più le condizioni indispensabili. Ed ecco che in tutta Europa, a conferma della tesi, c’è una crisi del teatro, tanto più che nelle culture in cui si sono manifestati i pensatori migliori del nostro tempo, in Inghilterra e in Germania, la drammaturgia è morta, come la generalità delle belle arti”.

il Teatro Bixio

Probabilmente l’unico errore che Piccoli ha commesso è stato quello di nascere nell’era sbagliata. Negli anni delle compagnie itineranti, del vero teatro popolare, di quella dimensione libera, interclassista, divulgativa e folkloristica, sarebbe stato molto più a suo agio. Parliamo comunque di una delle figure più importanti del teatro vicentino degli ultimi decenni, premiato innumerevoli volte, che ha formato schiere di nuovi attori, regista, interprete, scrittore. Un uomo che è sempre rimasto se stesso.

“Ho iniziato a fare teatro sacrificando tutto il mio tempo, con in mente idea del gruppo, forse per il piacere che qualcuno condivida con te delle cose, che ti faccia compagnia. Il teatro è una maniera per non essere soli sia dentro che fuori, affinché si scandagli qualcosa dell’animo umano. Però poi cogli anni mi sono accorto che non sempre il teatro fa bene alle persone e che, soprattutto, chi decide di vivere solo di teatro si trova chiuso in questa specie di comunità a se stante, e finisce con l’essere soggetto più o meno alle stesse regole, a volte torbide, di altri meccanismi legati all’economia generale. Quel che rimane è questa componente di un voler sancire attraverso l’essere artista una individualità che ha bisogno di sostegno. Un egocentrismo che spesso non viene soddisfatto. Un precipizio. Io non mi ritengo un artista, sono piuttosto un creativo. Ho studiato molto, le cose che mi sono venute da dare al teatro sono farina del mio bagaglio umano, delle capacità quasi congenite. Non ho mai sentito la necessità di insegnare teatro, di dover far cadere un sapere, una tecnica dall’alto di una conoscenza che gli altri non hanno. Questo lavoro l’ho sempre concepito come qualcosa che ti permette di dare alle persone qualcosa che non conoscono anche e soprattutto di se stessi”.

“Non credo più nella regia, non credo più nella tecnica, nemmeno nella spontaneità degli amatoriali, credo in un percorso personale che comunque andrebbe rispettato, anche se poi la scelta di portare il frutto del proprio lavoro al pubblico può avere delle controindicazioni perché il pubblico è un’entità generica che non sempre comprende e decodifica l’identità dell’artista ma ne percepisce uno strato parziale. Io sono un artigiano. Questa è una forma di artigianato”.

“Le cose mie che ho amato di più sono i miei più grandi insuccessi, progetti che sapevo già non sarebbero stati perfetti ma avevano importanza vitale per me e per quello che volevo dire. Volevo stimolare il pubblico senza dare messaggi ma emozioni e riflessioni”.

Quando hai notato che il tuo mondo stava cambiando?

Credo sia successo quando questa attività è diventata subordinata al talento e non alla vocazione. Oltre al talento oggi pesa il fabbisogno, come praticità o come nutrimento dell’ego. C’è stato un momento in cui il teatro è diventato a portata di tutti, la qualità non per forza è scesa, il problema è che non ci sono più punti di riferimento in un mondo legato alla performance così caotico e mutante con compagnie che nascono e muoiono in breve tempo, con delle realtà osannate perché vincono dei festival o hanno una buona critica, compagnie spinte secondo dinamiche relazionali e di settore. Poche persone decidono discrezionalmente chi va avanti e chi no. Non c’è più un percorso o una carriera, c’è una lotta costante spesso anche tra compagnie, e le collaborazioni sono esclusivamente per fini di sopravvivenza o per affinità principalmente politiche. A Vicenza poi siamo in una città molto provinciale. Una città di famiglie, di palazzi, che si staccano l’intonaco uno con l’altro per farsi dispetto. Qui non è apprezzato chi si distingue, tutto deve essere piatto, invisibile e sotterraneo, anche la ricchezza. Se sei un paria rimani un paria. In questo settore la sincerità non paga. Dicono che l’artista può dire quello che vuole ma io credo sia falso. Perlomeno nelle relazioni non legate alla mera creazione”.

con Anna Zago

Theama Teatro, che Piergiorgio ha fondato con Anna Zago e Aristide Genovese, oggi compie 21 anni. Una storia di successo e fatiche. Cosa vedi guardanti indietro?

“Faccio fatica a dire cosa NON abbiamo fatto. Lavoravamo assieme anche prima e abbiamo affrontato tutti i settori, dalla scuola, ai progetti educativi, ai site specific, al raggruppamento di varie associazioni, alle commemorazioni, testi dal dialetto veneto al classicismo greco, al dadaismo, al contemporaneo. Lavorando sempre un po’ a vista, dove intuivamo ci fosse possibilità di sbocco. L’identità forte non ce la siamo forse creata perché noi stessi abbiamo attitudini e passioni e formazioni diverse per cui abbiamo lavorato a 360 gradi e non ci siamo specializzati in qualcosa che in un certo momento ti dava più certezza. Con orgoglio posso dire che abbiamo accumulato un’esperienza anche personale come pochi altri. Negli ultimi anni la cosa più bella è che siamo riusciti a consolidare la formazione che non è solo teatrale ma soprattutto una via all’approfondimento, alla curiosità, alla cultura generale. E poi alla cura dell’anima.

con Aristide Genovese

“Io mi diverto ancora come un bambino quando si tratta di giocare sul palco, mi diverto a fare progetti anche affascinanti e bizzarri che magari rimangono nel cassetto ma faccio fatica ad avventurarmi in produzioni costose che poi non hanno distribuzione perché dopo il covid è diventato quasi impossibile per una compagnia media avere una distribuzione, come prima. Mi sento un po’ un osservatore. Guardo cosa mi succede attorno e cerco di capire come mettere al servizio della comunità quello che è stato maturato in questi anni. E ognuno di noi all’interno di Theama sta cercando una sua cifra. La mia potrebbe essere tornare a quel che facevo 40 anni fa, ovvero scandagliare testi meno conosciuti e divulgarli”.

Aprile 2024

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