“L’errore sta nel nascere” scriveva Emil Cioran. E tutto pare una condanna in questo spettacolo. Che è condanna della condanna, in ultima analisi. Tutto finisce, tutti si muore. La malattia è presenza anche nell’assenza, perché esiste una malattia che è quella di non sapere di essere malati o di negare il fatto che lo possiamo essere e che lo saremo. La scena è la vita stessa, e la narrazione è fattuale. Negazione contro azione, rimozione contro consapevolezza. La dialettica, nell’opera di Ganpiero Alighiero Borgia, riprende Sofocle per farne metafora e collegamento. Siamo dentro un tempo dilatato nei secoli, che racchiude un Filottete immiserito dalla battaglia persa contro il resto da sé. Non accade nulla non sia vissuto, reale, cronaca di un “vero” che appartiene alla caducità umana. Non ci vuole molto, dopo la comparsa di un superbo Nuccetelli, per rendersi conto che la messa in scena siamo noi. Si parla di noi, pubblico mentitore e poseur, della nostra concezione di benessere, del successo che cerchiamo, del nostro bisogno di essere accettati o, in malasorte, della nostra vanità di consolazione. Un teatro politico perché sociale, che non uccide ma fa prigionieri. Non è il senso di colpa ad investirci ma la partecipazione alla medesima passione del malato. Se un sentimento rimane è quello della complicità.

Questo “Filottete dimenticato” è stato pensato per le RSA e vi è un senso di completa coerenza nella scelta. A Vicenza è stato proposto nella sede piuttosto bizzarra di Villa Lattes, che si è in realtà rivelata perfetta. La freddezza del luogo, non a caso spesso ambientazione di congressi o convegni, lo rende un “non luogo”, un posto in cui abitare senza avere mai domicilio. Se alla parete poi, tra altri manifesti appesi, ci trovi una locandina che presenta un corso di conoscenza alla demenza, allora quel misto di disagio e distacco, diventa imperante.

Scena: una tv trasmette Alessandro Barbero che parla di storia, dietro, una pianta che pare finta (e forse lo è). Su un ripiano alzato Filottete/Nuccetelli appoggia un vaso di fiori, dal rosso acceso ma dal mesto portamento. A lato della tv, in mezzo a noi, la poltrona del degente con a fianco l’altro protagonista della storia: BIll, il pesce rosso. Si dice da decenni che la sua memoria duri addirittura intorno ai 3 secondi. Probabilmente non è vero, ma di certo è breve, brevissima. Ecco che, di nuovo, questo spettacolo siamo noi. Perché Bill ha la nostra stessa memoria, sebbene la nostra sia chiaramente selettiva. Filottete delira, chiama il figlio a portarlo via di lì, parla col pesce, danza, alza e poi abbassa il volume della tv (Barbero non smette), rivolge a noi domande a cui noi non rispondiamo. Ma soprattutto soffre, molto e di continuo. La sua demenza è anche dolore fisico. “Il dolore è verità divenuta carne”, dice. E poi chiede: “Che colpa ne ho io se sto male?”. Eh già, quale è la colpa di chi sta male? Nessuna, diremmo tutti senza batter ciglio. Eppure ce lo sta sbattendo in faccia, il fatto sia colpa di tutti. Lui, lì in mezzo alla gente ma sempre troppo lontano. Che piange e urla e si rifugia nei cari vecchi Stones che cantano che “non puoi sempre avere quello che vuoi, ma se ci provi davvero puoi avere quello di cui hai bisogno”. Ecco il senso del tutto: avere ciò di cui abbiamo bisogno. Molto più di una carezza e forse meno della piena salvezza.
