HAI DIMENTICATO LA MIA CANZONE. VIVERE NICK CAVE NELLA VICENZA DEGLI ANNI 80.

Nel 1984 avevo 18 anni e già da due o tre anni il termine new wave era entrato in qualche modo nella mia visione delle cose. Avevo ormai abbandonato quella depressa malinconia, controcorrente rispetto alla fine della stagione hippy, dei primi due dischi dei Doors, con annesso processo di imitazione dello stile Morrison. Rubai in un negozio, mettendo il disco in vinile sotto il mio ampio eskimo blu (quelli verdi li avevano finiti al mercato) una copia di Sandinista dei Clash. Ascoltare i Clash in un paesino dalla struttura medioevale, in cui il 78% dei giovani della mia generazione andava in cerca di eroina nelle campagne piene di nebbia, circondato da luoghi fisici molto simili alle scenografie di un film espressionista, equivaleva ad esplodere dentro ad una scatola di titanio. L’esplosione non esce, ritorna dentro, ti gonfia e tu la rimandi fuori in modo diverso, sempre. Un’indubbia palestra creativa. Sono sopravvissuto a tutta la merda immensa dell’Italia degli anni ’80 girando città desolate e ripetendomi all’infinito una frase dei Clash: “uscite dagli armadi”. La scoperta della new wave fu folgorante. Ancora oggi il termine new wave mi riporta con il pensiero a quella situazione dolce e aspra nella quale puoi sempre trovare una via di fuga, nella quale puoi sempre ridefinire qualsiasi situazione. La lezione era: piega il mondo usando la tua mente, anche se il mondo non si piegherà mai. Nel 1985 con i pochi soldi che avevo o che rubavo mi sono intossicato del deserto americano e della California malata dei Thin White Rope, dei Dream Syndicate, dei Wall of Voodoo e soprattutto dei Gun Club. Girare in lungo in largo nella grande prigione della pianura padana significava girare con una pistola carica di disincantata illusione, con quell’egocentrismo giovanile che si disperdeva in pioggia e in ricerca di posti che erano la tua realtà. Una realtà fatta di luoghi riarsi, la cui sabbia si alzava velocemente a costruire fragili cattedrali che qualcuno era sempre a chiamare “economia” e “cuore pulsante”, e qualcun altro “schiavitù” e “disastro”. In realtà le mie giovani narici avevano fin troppo presenti i reflui velenosi che davano il tocco apocalittico ad un sistema che vedevo già morto. E i miei giovani occhi a fessura sapevano che quei veneti che vedevo, impiegati e operai, c’entravano con la lotta di classe come oggi la politica c’entra con il misticismo. Meno di Zero, come diceva Ellis. E per me tutti loro erano solo zombies buffi e minacciosi delle canzoni dei Fuzztones; erano mostri minacciosi ed eroticamente pop dei Cramps. Il periodo intimista cominciò nel 1986 con i Jesus e Mary Chain e Heaven Up Here dei Bunnymen. Un intimismo che ti rannicchiava in angoli bui a vedere la pioggia e a destrutturare la paura del futuro e del destino. Ero già adulto, mi sentivo già adulto quando disprezzavo ogni forma di consumo pensando che “dio sputa nella mia anima e c’è qualcosa di morto nel mio buco”. Poi, a mettere il lento germe della mia formazione arrivò Nick Cave. Una sua canzone, in particolare, non riuscivo a staccarmela dalla mente, era come una ciste in testa. A quel tempo “Your funeral my trial” non era ancora arrivato nella palude in cui vivevo. Aspettai, guardando quel mortale tubo catodico solo per beccare il video, agli albori del potere di Mtv. Lo pagai caro “Your funeral my trial”, credo 17 mila lire per via dell’importazione. Un album per me fondamentale. L’esatta consacrazione del blues europeo, fatta da un tossico australiano. Su quel vinile, però, la mia canzone non c’era e non c’era internet ad evitare di sbatterti le palle per cercarla. E fanzine e giornali non sempre erano a disposizione. Poi, con difficoltà, la scoprii, quella canzone. Kicking Against The Pricks per me è stato come il primo rapporto sessuale con la donna che amavo alla follia, con quella donna che chiamavo “io” e lei mi chiamava “tu” e solo la fottuta gravità ci faceva capire che avevamo due cuori, due polmoni, due fegati, organi sessuali diversi etc. Abitavo in una casa al quarto piano con una terrazza alta, vicino ad una fabbrica, quasi multinazionale, che produceva scatolame per uova. E gli operai, pure le assemblavano le uova, dentro quelle scatole che al tempo si usavano per insonorizzare sudici garage parrocchiali di provincia che imitavano sudici garage di di sucidi slums londinesi dove tanti cialtroni avevano poca pietà per bassi e chitarre elettriche. Il tanfo che proveniva dalla fabbrica a volte era insopportabile. Con qualche amico, a volte, di sera, ci mettevamo sul tetto e sparavamo con un fucile ad aria compressa sulle scatole di uova lasciate all’aperto. Sul davanti della casa l’odore era invece sopportabile. C’era un poggiolo lungo ed ampio dove stare d’estate. Quell’agosto del 1986. dopo aver messo lo stereo vicino alla porta e le casse esternamente, appoggiate alle finestre, e dopo aver portato fuori il materasso, mi sistemai lì fuori per l’intero mese, con solo acqua, vino, un po’ di anfetamina e qualche grammo di fumo. Scrissi a macchina, seduto su un cuscino, un libro intero di poesie. Si chiamava Pelle di Ragno. Lo scrissi guardando la gente che entrava al supermercato di sotto. Il panorama lontano non era male. Colline dolci ed infinite, coperte appena da eterne gru che buttavano cemento su cemento nelle viscere della pianura. Sullo stereo, ininterrottamente, c’era quella canzone che non ho mai dimenticato e che non posso dimenticare. Quella canzone che sul terrazzo ascoltai all’infinito o almeno fino all’intervento dei carabinieri con la diffida a disturbare i quieti cittadini. Adesso, quella canzone la canto sempre nella mia testa quando questa tristezza dolce come il migliore dei vini, che qualcuno chiama frignare, ma che in realtà è solo fottuto splendido blues, mi riempie le mie terminazioni nervose. E quando penso a quella canzone, significa che penso a te e a quello che non mi darai mai perché tutto si perde nel mare della memoria. Ma non importa. Anche se questo è solo un modo stupido di fare una recensione e di parlare di quella cosa che si muove dentro e che non voglio chiamare in nessun modo, perché ogni parola muore sulla pelle umida e sule lenzuola bagnate. Io adesso la canto assieme a Nick, quella canzone, mettendo you tube e sopportando il fastidio della pubblicità Duracell. E canto piano, dopo l’inizio di chitarra eroinomane, e piano urlo: “sono un figlio del mio tempo, chiuso nelle pagine del mio libro e quando non sarò che polvere e terra tutti i bambini smetteranno di guardare…”

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