Vicenza e l’Impero. Panoramica sui moti quarantotteschi.

Negli ultimi anni della Seconda dominazione asburgica riemersero gruppi intellettuali che presero a
organizzare salotti in cui discutere di politica, fondarono circoli culturali ove, dietro la facciata di
convegni e pubblicazioni si celava un proposito diverso, atto a risvegliare le coscienze intorpidite
degli uomini liberi. Il nobile Venceslao Loschi, collegato agli oppositori lombardi da una regolare
corrispondenza, fondò l’Accademia dei Filologi, la cui occupazione di facciata era organizzare
simposi letterari, ma la cui attività di critica politica sotto copertura la condusse presto a far la
fronda al regime. Negli anni Trenta venne fondato il Gabinetto di Lettura, una specie di Viesseux
alla vicentina: anche in questo caso lo scopo era di adottare un approccio ubiquo nei confronti degli
occupanti, che dietro le zelanti dimostrazioni pubbliche di una cultura coerente con i valori
propugnati da questi ultimi, celasse il fermo proposito di interrogare i suoi insigni membri circa
l’opportunità di un cambiamento generale. Nel salotto del palazzo di famiglia dei Trissino si dava
convegno la migliore nobiltà vicentina per parlare di cose nuove, mentre a casa della nobile
famiglia Velo, il conte Egidio organizzava sovente incontri riservati nei quali discuteva con i suoi
amici di una situazione che da vicentina finiva presto per diventare italiana, grazie ad una
quanto mai efficace partenogenesi d’idee, che gli uomini di cultura presenti a quei conventicoli
afferravano subito: del conte Velo erano frequenti e graditi ospiti i fratelli Pasini, il poeta Jacopo
Cabianca, il conte Giambattista Salvi, il quale soleva intrattenersi a conversare «sommessamente, in
un angolo della stanza […] delle nuove di Francia, dei moti di Modena [sdegnandosi] che tutta
l’Italia non fosse un incendio», raccontava il poeta Giacomo Zanella. Un altro importante luogo di
incontro per i fautori del dissenso, ricorda Franzina, era la stazione termale di Recoaro, la cui fama
celebrata in tutto il continente vi faceva convenire non soltanto i notabili locali, ma ministri e alti
funzionari da tutti gli stati d’Europa, i quali, per tutta la stagione in cui gli impianti erano in
funzione, da giugno a settembre, non si limitavano a godere dei benefici che le acque termali
arrecavano ai loro corpi malandati, ma solevano scambiarsi informazioni e le ultime novità dal
contesto politico. Non era arduo, quindi, che lo stabilimento recoarese vedesse appaiati, nello stesso
momento, esponenti del regime asburgico e notabili vicentini che lo avevano dapprima sostenuto e
che ora stavano lavorando per minarne in segreto la solidità. Si trattava di proprietari terrieri o
industriali che avevano contribuito alla nascita del Lombardo-Veneto perché si sentivano garantiti
dall’Austria. Non c’era differenza tra coloro che avevano voluto l’instaurarsi del potere imperiale, coloro su cui quest’ultimo si era appoggiato per trovare legittimazione presso tutta la comunità, e
quelli che iniziarono in seguito l’opera di opposizione: erano gli stessi nominati nelle istituzioni
austriache a chiedersi se non stesse per giungere il momento di scegliere un nuovo punto di
riferimento politico, che riuscisse a salvaguardarne gli interessi meglio di quanto fino a quel
momento aveva fatto l’impero degli Asburgo. Un tale sommovimento, che interessava l’interno del
sistema rischiando di provocarne l’implosione, non poteva non essere notato dalle autorità, che
attraverso una rete di fiduciari distribuita sul territorio, presero a trasmettere a rapporti sempre più
allarmati circa il mutato «spirito pubblico» di Vicenza, sul «rischio» che il corpo sociale fosse
insidiato da infiltrazioni rivoluzionarie, i quali indugiavano spesso sul carattere poco affidabile dei
vicentini, che facevano di tutto per mostrarsi indifferenti alle notizie sulla situazione internazionale,
sempre più tesa. Franzina riporta un brano da uno di questi rapporti, che ben riassumeva l’amarezza
dei funzionari imperiali di fronte all’atteggiamento mistificatorio dei vicentini: «Essi non hanno
altra preoccupazione se non quella di raccogliere le differenti notizie e di riunirsi in otto, dieci, a
consolarsi nei caffè con queste, e siccome la polizia li veglia molto […] col pretesto di andare a
passeggio si allontanano una o due miglia fuori dalle porte della città per consolarsi colle novità
contrarie al presente governo che l’uno o l’altro può raccontare». Non solo i notabilati, ma il
malcontento antiaustriaco coinvolgeva anche parte delle classi popolari di Vicenza, venendo
incanalato nei propositi più o meno eversivi delle associazioni solidaristiche che nascevano in quel
periodo nel tessuto cittadino. Il loro pretesto era di esercitare azioni caritatevoli verso il popolo
minuto, ma in realtà iniziavano a far proseliti di rovesciamento dell’ordine sociale, sotto gli occhi
della sbirraglia asburgica, che annotava «interessanti scoperte relativamente a quelle associazioni di
Cappellai, formate sotto l’apparente scopo d’un vicendevole soccorso», trasmettendo l’ordine di
sciogliere quei conventicoli sovversivi, in quanto perturbatori del tradizionale assetto della
comunità, che potevano causare nuovi incidenti a danno delle istituzioni asburgiche a Vicenza. Tra
il 1845 e il 1846 si abbattè sul Vicentino una terribile carestia, dovuta non tanto all’isterilimento dei
raccolti, quanto al nuovo regime di agricoltura capitalista imposto in questa fase dai proprietari
terrieri e facilitato dalle autorità austriache, che attenuarono la politica daziaria permettendo loro di
commerciare con tutti gli altri territori dell’Impero, appoggiandosi ai grandi mercanti di granaglie,
che manovravano i prezzi dei prodotti agricoli a seconda delle proprie esigenze di vendita,
abbassandoli od alzandoli a piacere. Tali scelte ricaddero, sui braccianti dei grandi latifondi, già
provati dalle esorbitanti richieste di danaro cui dovevano far fronte per continuare a lavorare la loro
terra, i cui frutti venivano ora destinati al mercato, privandoli della loro unica fonte di
sostentamento. Impoveriti, costretti a nutrirsi del solo mais per poter sopravvivere, essi incontrarono
presto la piaga della pellagra, che già nel 1816 aveva colpito, nel Vicentino, non meno di 14.000
soggetti. Questi fattori risultarono determinanti per scoppio dell’insurrezione vicentina, guidata dai sempre più insofferenti notabili, combattuta con afflato da artigiani, piccoli commercianti e bottegai
in cerca di riscatto sociale, non troppo osteggiata in alcune campagne, ove i villici furono istruiti
dai preti alla causa nazionale come portatrice di un nuovo tempo di giustizia. Il 18 marzo 1848
Milano insorse: si costruivano barricate, si combatteva per le strade, nobili e borghesi, un tempo
figli prediletti dell’Austria ora le si rivoltavano, maledivano le bianche uniformi dei suoi militi, ci
sparavano contro, aiutati dal popolo minuto, che giocava la sua parte ingrossando le fila dei
rivoltosi. Il 23 marzo, dopo l’attacco improvviso dei milanesi, la guarnigione militare di Radetzky si
ritirò, inseguita dagli eserciti che altri sovrani d’Italia avevano nel frattempo inviato a combattere,
mentre a Vienna come a Budapest il cuore stesso del sistema imperiale dava segnali di cedimento
sotto il peso dei moti popolari. Il cronista veronese Vittorio Meneghello così ricordava quei giorni
di vigilia: «Per lo sbigottimento, abilmente sfruttato dalla borghesia agitatrice, si ebbe l’inerzia delle
milizie e in seguito – precipitate le cose Lombarde – capitò loro l’ordine di concentrare le truppe, in
Verona. S’imponeva la necessità delle armi (…) Podestà e Giunta sotto colore di provvedere a una
rivolta di contadini, che si affermava imminente, domandano licenza di armare i popolani,
tranquillando intanto i Vicentini con consigli di calma e moderazione». La necessità di spostare da
Vicenza la guarnigione imperiale per riunirla al grosso delle truppe nella fortezza veronese del
quadrilatero, per coprire la ritirata di Radetzky da Milano, lasciò il capoluogo berico sguarnito di
forze, galvanizzando la classe dirigente vicentina, che non pose tempo in mezzo: la giunta
Costantini inviò un gruppo di cittadini benemeriti, di cui facevano parte lo stesso podestà, il nobile
Valentino Pasini e Don Giuseppe Fogazzaro, dal delegato provinciale austriaco per presentargli
formale richiesta di poter armare i cittadini di Vicenza, col pretesto di dover far fronte ad una quasi
certa insurrezione contadina avrebbe potuto invadere la città, come nel 1809. L’autorità imperiale
avvallò quindi la creazione della Guardia Civica vicentina e l’entrata in attività di una Giunta
Straordinaria Municipale, che avrebbe dovuto gestire il disordine sociale in cui il Vicentino stava
precipitando, insieme a tutti gli altri territori del Regno. Il 22 marzo, essa, forse approfittando
dell’imminente sconfitta e della sempre più prossima cacciata degli austriaci da Milano, ruppe i
legami con ogni residuale forma di dovere che avrebbe dovuto assolvere nei confronti dello Stato
asburgico, e assunse il nome di Comitato Provvisorio Dipartimentale: quest’organo avrebbe guidato
la città alla rivoluzione patriottica, dirigendola in ogni sua fase e inviando i suoi membri a
rappresentare Vicenza fuori dei suoi confini. Oltre al podestà Costantini, ne facevano parte gli
avvocati Giampaolo Bonollo e Sebastiano Tecchio, quest’ultimo in seguito più volte deputato e
presidente di entrambi i rami del Parlamento italiano tra gli anni Settanta e Ottanta, il notaio
Bartolomeo Verona, il commerciante Giovanni Toniato, i sacerdoti Don Giuseppe Fogazzaro e Don
Giovanni Rossi, a chiara dimostrazione di quanto il clero vicentino nutrisse più di qualche curiosità
nei confronti della fronda antiasburgica, il conte Luigi Loschi, e il giureconsulto Valentino Pasini, futuro deputato dell’Italia unita. Colpisce, nella composizione del gabinetto rivoluzionario, la
novità, dirompente per l’epoca, che riguardava l’estrazione borghese di quasi tutti i suoi membri,
provenienti dal professionismo giuridico, o dal commercio, che nulla avevano a che spartire con la
grande proprietà fondiaria, piuttosto che con il tradizionale ceto alla guida di Vicenza, l’aristocrazia
urbana. Non appena creato, il Comitato Provvisorio redasse un proclama trionfalistico che, lungi
dall’istruire la popolazione dei gravi rivolgimenti in atti, la spronava invece ad unirsi al non meglio
precisato progetto patriottico, che per la verità ancora nessuno conosceva bene, dal momento che
tutte le scelte politiche decisive che avrebbero in seguito portato al Risorgimento nazionale, così
come la storia nazionale lo conobbe, erano ancora di là da decidersi: una delegazione vicentina
composta da Tecchio, Fogazzaro e dal conte Giuseppe Mosconi instaurò subito contatti con
Venezia, che si era frattanto liberata dandosi anch’essa organi di autogoverno provvisori, guidati
dall’avvocato e patriota Daniele Manin, anche se in quei giorni di estasi generale un solo nome
risuonava sulle bocche dei patrioti vicentini d’ogni ceto sociale: Pio IX. Papa Mastai-Ferretti aveva
suscitato sin dalla sua elezione al Soglio, nel 1846, un coro di speranze nell’opinione pubblica
liberale italiana, che lo aveva ben presto eretto a faro della ineluttabile lotta per l’affrancamento
politico della Penisola dal secolare giogo straniero. Le prime timide aperture del pontefice, che
riguardarono le modalità con cui amministrare i beni temporali della Chiesa, e fra cui compariva
pure un’amnistia concessa per coloro che si erano macchiati di reati politici, non fecero che
accrescere le aspettative dei patrioti, i quali ormai inneggiavano apertamente al papa quale
rappresentante ideale della nuova Italia. Quasi tutti i politici e gli intellettuali più devoti alla causa
avevano letto o conoscevano il pamphlet che l’abate Vincenzo Gioberti aveva pubblicato nel 1843,
titolata Del primato morale e civile degli Italiani, in cui si asseriva che la virtù più grande dell’Italia
era stata quella di aver avuto una Chiesa cattolica da secoli impegnata per la sua libertà contro ogni
esercito, sovrano o popolo nemico, e si designava pertanto il romano pontefice quale più degno
rappresentante delle nuove aspirazioni del popolo italiano, risvegliato nella propria coscienza da
secoli di intorpidimento. Anche i patrioti vicentini erano certamente imbevuti di tali romantici
desideri, e poco importava che Pio IX in realtà non intendesse affatto assecondarne le intenzioni, e
che considerasse il liberalismo costituzionale al pari del più materialismo socialista: un cancro per
la Civitas Dei, la società armoniosa suddivisa in ceti diversi, ognuno portatore di bisogni e interessi
differenti, e dominata dall’ossequio verso la religione. Tornando al primo proclama del Gabinetto
Provvisorio, all’alba del Quarantotto vicentino, esso diceva: «Concittadini! Nato dalla necessità il
governo provvisorio è costituito e concentra in sé tutti i poteri. Il fermo suo proposito di operare il
bene del paese, la brava guardia nazionale e la unione dei cittadini sono la sua forza. Quanto si
compie sotto i nostri sguardi è la prova più manifesta che nelle mani di Dio sono gli uomini e gli
eventi. A Dio dunque la gloria. Viva la Indipendenza! Viva la Libertà! Viva l’Italia! Viva Pio IX!»


I cannoni della Rocchetta, manovrati dai patrioti, sparano contro il nemico in direzione di Verona.

Un messaggio, dunque, intriso di riferimenti fideistici, che lasciava trasparire tutto il contrario di un
pericoloso significato laicista, e che si chiudeva con la solenne invocazione al pontefice. Egli aveva
appena ordinato che le truppe pontificie fossero inviate in soccorso dei rivoltosi di Milano, e
continuò ad occupare un posto speciale negli animi dei vicentini, quale primo difensore della causa
nazionale, anche dopo che si consumò il distacco traumatico tra quest’ultimo e il resto dell’opinione
pubblica liberale italiana, come si vedrà più avanti, in occasione dell’esame di un particolare caso
processuale avvenuto a Vicenza nell’autunno 1848. Il Comitato Provvisorio fece in tempo a
proclamare l’adesione di Vicenza alla nuova Repubblica Veneta creata da Manin, con un nuovo
messaggio, letto in Piazza e affisso in tutti i muri della città. Tuttavia, dopo aver inviato i propri
rappresentanti quali nominati in seno alla Consulta veneziana, fu costretto a rettificare queste
decisioni, proprio dai notabilati d’animo meno progressista: essi lo sostenevano e avevano voluto la
rottura con l’Austria proprio in difesa dell’ordine sociale, che corrispondeva ai loro interessi di ceto
a guida della società berica. Temevano, perciò, che Venezia avrebbe ricercato, nei riguardi delle
città venete che erano insorte, unendosi al suo governo, quel ruolo egemone che aveva
caratterizzato il suo secolare dominio sulla Terraferma, e guardavano con apprensione ancor più
angosciosa agli eccessi repubblicani, laici ed egualitari di Manin e del suo gruppo. I patrioti
vicentini più conservatori, aristocratici col terrore del socialismo o con nostalgie clericali e
monarchiche presero a radunarsi per discutere un cambio di passo: da tali riunioni, in cui quasi si cospirava contro i cospiratori, emerse il proposito di collocare Vicenza nel solco moderato e filo-
sabaudo del movimento nazionale, per evitare che l’ordine sociale cedesse sotto il peso di scossoni troppo bruschi. Tali malumori furono stroncati sul nascere dal Comitato Provvisorio, che non si
poteva permettere di venir meno all’appoggio degli uomini più influenti della città, e il 13 aprile
1848 Vicenza dirigeva la sua prima, accorata quanto opportunistica, invocazione a Carlo Alberto di
Savoia. Tutto ciò sarebbe comunque valso a poco: dal punto di vista militare, Vicenza era assai
esposta ad assalti nemici, perché in asse con la fortezza di Verona, dove il grosso delle truppe
asburgiche era in attesa dei contingenti di rincalzo da est, guidati dal generale Nugent. L’8 aprile i
volontari vicentini si resero conto una prima volta della netta superiorità numerica degli austriaci,
meglio equipaggiati e assai meglio comandati, venendo sbaragliati nelle campagne a ovest di
Vicenza, tra le località di Sorio e Montebello. In città ci si preparò alla resistenza, che fu agguerrita,
e respinse due volte gli assalti austriaci, tra il 20 e il 24 maggio. La battaglia decisiva fu combattuta
l’8 giugno, quando i 5.000 volontari, guidati dal ribelle generale Durando, si scontrarono con i
40.000 uomini di Radetzky sull’altura del Monte Berico. All’alba del 10 giugno, fu issata sulla torre
civica la bandiera bianca, che annunciava il ritorno di Vicenza sotto il governo degli Asburgo.

Soldati imperiali conquistano Villa La Rotonda, giugno 1848.

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