Tranquilli, non è accaduto oggi o ieri e nemmeno ieri l’altro: questa notizia, succulenta per chiunque si diletti a spigolare nelle cronache più o meno recenti, è datata 15 Ottobre 1848. Per leggerla non dovete acquistare alcun giornale, ma recarvi presso l’Archivio di Stato di Vicenza e spulciare con attenzione la busta 167 della sezione Tribunale Penale austriaco, farcita di carte relative ai procedimenti giudiziari dell’amministrazione asburgica di metà Ottocento, da cui estrarrete un fascicolo 193 che ospita un Referato di finale inquisizione, vergato di proprio pugno dal magistrato che aveva in consegna il caso processuale di cui ora parleremo. Vien da chiedersi: può un pestaggio per un bicchiere in più riassumere non solo una cospicua porzione del panorama antropologico di Vicenza nella prima metà del XIX secolo, ma anche di fornire una dimostrazione pratica circa il funzionamento delle istituzioni giudiziarie di uno stato, quale il Regno Lombardo-Veneto, dalla struttura burocratica assai articolata e complessa? Ebbene, se vittima del pestaggio è un soldato asburgico e se gli autori sono un gruppo di giovanissimi popolani, ebbri di rhum e inneggianti a Papa Pio IX e all’Italia unita, pochi mesi dopo la grande insurrezione dei vicentini durante la Prima Guerra d’Indipendenza, le cose si fanno oltremodo interessanti. Ma prima di dar conto dei fatti, che analizzeremo attraverso la lente del braccio giudiziario delle istituzioni imperiali a Vicenza, ovvero il giudice relatore di prima istanza che si occupò del caso e che predispose il referato oggi giunto fino a noi, come una sorta di giornale dell’epoca, sarà bene fornire un rapido quadro normativo e istituzionale nel quale ci stiamo muovendo. Il Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni di polizia austriaco del 1803 regolava le istituzioni giudiziarie che amministravano la giustizia penale nel Regno Lombardo-Veneto, che per i soli delitti erano suddivise in tre istanze: la prima demandata al Tribunale provinciale del capoluogo, la seconda al Tribunale generale d’Appello, la terza al Senato lombardo-veneto di Giustizia. Il procedimento iniziava con la nomina, da parte del consesso criminale dei giudici di prima istanza, di uno di loro quale giudice relatore del caso: egli conduceva le indagini, interrogava i testimoni, ricercava le prove e aveva la funzione sia di accusatore che di difensore degli imputanti, essendo il sistema inquisitorio asburgico privo della figura giuridica dell’avvocato. Al termine del processo, il giudice relatore esponeva al consesso dei colleghi della sua istanza le sue conclusioni, scritte in una relazione riassuntiva della dinamica del fatto criminoso, del processo e dei suoi pareri, chiamata Referato di finale inquisizione: il relatore proponeva quindi l’assoluzione, la colpevolezza e quindi una pena da comminare, oppure la conclusione del procedimento per difetto di prove legali. A prendere la decisione definitiva era il consesso criminale, con un verdetto collegiale, che era considerato più equilibrato di una scelta univoca. Perquanto concerne le gravi trasgressioni, crimini più blandi dei delitti, l’intero procedimento era affidato alla pretura competente per territorio. Ciò detto, entriamo in medias res!
Il 15 Ottobre 1848 era una serata come tante per Giulio Sternberg, caporale ungherese del reggimento di fanteria Francesco Carlo in licenza, intento a sorseggiare qualcosa di forte assieme al commilitone Carlo Kostelny nel «negozietto di spiriti» di contrà Santi Apostoli. I due, felici di poter passare qualche momento di spensieratezza, non immaginavano il brutto quarto d’ora che presto avrebbero vissuto, anche se il pericolo di vagare per Vicenza la notte era piuttosto alto, dato il carattere degli avventori dei tanti lupanari, dove alzare troppo il gomito e chiudere la serata in una galera umida, magari con un occhio nero o peggio, era tipico. Ma due soldati in licenza avrebbero avuto una qualche ragione di sentirsi protetti, in virtù del loro ruolo nella comunità. Accadde invece che, appena usciti dalla mescita, Sternberg e Kostelny furono presi di mira da tre ragazzotti di passaggio, che eccitati dal rhum inneggiavano a Pio IX cantando versi che esaltavano l’Italia unita. Quest’ultimo elemento è interessante, giacché nell’autunno 1848 la libido dei patrioti verso papa Mastai-Ferretti si era già sopita in tutta la Penisola, dopo che il pontefice si era rimangiato la dichiarazione di guerra all’Impero austriaco, potenza cattolica, e aveva preso pubblicamente le distanze dal cancro del Liberalismo. Appare più verosimile che quei ragazzi gridassero al suo indirizzo perché inconsci del cambio di passo della politica “nazionale”: figli del popolo minuto, che comunque percepivano la Chiesa come punto di riferimento molto più dei notabili emancipati, non avevano nemmeno i mezzi per seguire la diatriba tra politici e ideologi che passava sopra le loro teste di contadini. Comunque, gli atti processuali raccontano che essi intimarono ai due soldati di unirsi al coro, ricevendo uno sdegnoso rifiuto, secondo la versione fornita da Sternberg, o una rispostaccia inquinata dalla bestemmia all’indirizzo del papa, stando alla testimonianza dei ragazzi. Subito dopo ebbe luogo il pestaggio: la furia cieca dei tre si avventò sul caporale, scaraventato a terra e sopraffatto da pugni alla testa. Kostelny riuscì a divincolarsi e a chiamare in aiuto una pattuglia notturna, che giunse sul posto quando la pletora si era già dissolta con la rapidità con cui era apparsa, lasciando riverso Sternberg, ferito. L’indomani, il delegato provinciale asburgico (l’equivalente del prefetto) arrestò i fratelli Benedetto e Gaetano Rebustello, assieme al gestore del locale di contrà Santi Apostoli, Giuseppe Dal Soglio: tutti sospettati di essere gli autori del pestaggio e condotti nelle carceri criminali del Tribunale provinciale di Vicenza. Quindi, la prima istanza nominò un giudice relatore: egli aprì un fascicolo processuale, in cui riassunse le fasi del procedimento penale a carico degli imputati, raccolse la loro testimonianza, la confrontò con il racconto di Sternberg, e annotò i rilevamenti dei periti sulle abrasioni del caporale.
Il resoconto è contenuto nel referato di finale inquisizione, redatto in data 18 Ottobre 1848, tre giorni dopo i fatti, che venne titolato: «Grave lesione corporale in danno di Giulio Sternberg, Caporale nel Regg. Francesco Carlo». Sfogliandolo, il primo foglio che s’incontra è il «Giornale», che contiene in forma sintetica tutte le fasi delprocedimento: il giudice configurò la fattispecie di reato, menzionò nome cognome dei tre imputati e compilò una griglia prestampata aggiungendo la data dell’atto, il «numero corrente» dei «pezzi principali», che formavano il corpus del fascicolo, e dei «pezzi allegati», che vi furono aggiunti. Nella sezione intitolata «qualità dell’atto», il giudice relatore segnò in successione ogni atto processuale nell’ordine in cui veniva accolto nel fascicolo, iniziando con la «Nota della locale Regia Delegazione», che consisteva nello scritto con cui il delegato provinciale invitava a indagare, e concludendo con gli atti di «referato e deliberazione», che chiudevano il procedimento. Il referato iniziava ricordando quanto si era affermato durante le indagini preliminari, negli «Atti di preliminare investigazione sopra titolo di grave lesione corporale e ferimento a danno di Giulio Sternberg, caporale del Reggimento di Fanteria Francesco Carlo; avvenuto in Vicenza la sera del 15 Ottobre corrente mese, a opera di 15 in 16 giovinotti, fra i quali = Giuseppe Dal Soglio detto Settimin fu Giovanni, dell’età di anni 26 = Benedetto Rebustello, e Gaetano di Francesco, fratelli gemelli, dell’età d’anni 19». Leggiamo la ricostruzione degli eventi fatta dal giudice relatore:«Erano circa le 9 di sera del 15 Ottobre corrente mese, allorché una turba di circa 16 giovinotti che […] si ritrovavano nell’Osteria al Porton del Luzzo, si dirigevano verso la Piazza. Quando giunsero in faccia ad un negozietto di spiriti, condotto da Giuseppe Dal Soglio […] vedevano sulla strada un caporale, che era uscito da quel negozietto, ove assieme ad un soldato erano stati a bere del Rhum. In quel momento, strada facendo quei giovani cantavano la canzone di = Viva l’Italia, viva Pio nono e simili = […]». Capiamo quindi che i giovani provenivano da un’altra osteria, situata a pochi metri da quella dove Sternberg e Kostelny avevano trascorso la serata, in zona Porton del Luzzo. Si evince che gli autori del gesto criminoso dovevano essere più di coloro che poi furono arrestati. Il giudice relatore proseguì, dando conto delle due versioni differenti di vittima e imputati: «[…] e giunti vicino a quel caporale, alcuni di essi gli chiedevano se fosse Tedesco, Croato, od Ungherese. Egli tosto rispondeva loro, Ungherese, qual era infatti, per il che quei giovani lo invitavano a cantare con essi Viva Pio nono. Egli dice di essersene semplicemente rifiutato, essi testimoniano […] che quel caporale si era sì ben rifiutato dal cantare, ma dicendo però, non ben ricordava se = crepa Pio nono, oppure Porco Pio nono = […]». Qui la ricostruzione della vittima confliggeva con la versione fornita dai tre imputati, facendo emergere un quadro diverso, addirittura opposto, rispetto alle conoscenze pregresse in possesso del giudice. Tuttavia, prescindendo dal fatto che il racconto dei tre fosse vero o falso, il giudice relatore non poté ignorare i danni fisici causati dall’aggressione, che il referato attribuì comunque ai tre imputati, anche se precisò che essi avevano riferito di essersi sì trovati nel luogo che gli veniva contestato, ma di non aver preso parte al pestaggio, indicando quali veri responsabili «gli altri» giovani che formavano il gruppo. Il giudice passò dunque a descrivere nel dettaglio il momento dell’agguato e della successiva notificazione dell’arresto: «[…] al rifiuto essi gli saltarono addosso, lo pugnavano sulla testa, e lo ferivano sullamano sinistra, spezzandogli anche la punta della spada che aveva sfoderata, e lo gettavano a terra. Il soldato compagno […] a chiamare la pattuglia, che all’avvicinarsi di essa tutti intorno si sbandavano, e così finiva quel fatto, pel quale il dì dopo, per ordine politico, venivano arrestati il sunnominato Dal Soglio, ed i due fratelli gemelli Rebustello Gaetano, e Benedetto, perché certa Maria Pagliani e certo […] Candi, attestavano d’essere fra quella turba […] e veduti a percuotere quel militare; e colla determina del fatto venivano […] a questo Tribunale, e rinchiusi nelle carceri criminali». Nuovi dettagli precisavano le ragioni dell’arresto: i tre non vennero fermati a caso, ma seguendo le indicazioni di due testimoni, tale Maria Pagliani e tale Candi, che avevano assistito alla colluttazione senza essere visti. Al che, i tre riferirono di non essere stati loro a sferrare i colpi che avevano causato lesioni a Sternberg. Del resto, un margine per poter accreditare la loro versione esisteva, poiché essi furono accusati dai testimoni in quanto membri della pletora di ragazzi che attraversava cantando la contrada, fermandosi poi davanti al negozio di spiriti, ma non già come gli autori materiali del reato che gli era stato notificato, giacché i due testimoni non erano sicuri che fossero loro. Poi, il giudice relatore scrisse una nota sulle condizioni fisiche della vittima, tenendo conto delle indagini svolte da periti:«Ispezionate giudizialmente al caporale le offese, trovasi = che all’orbita sinistra aveva una ecchimosi, estesa ad entrambe le palpebre, nonché […] alla congiuntura sopra la superficie esterna del bulbo dell’occhio = che altra ecchimosi mostrava alla palpebra inferiore destra, coi caratteri della suddescritta. = Al dorso dell’articolazione del dito anulare […] una incisione lunga 4 linee in direzione longitudinale coi giorni ricucita crosta di sangue rappreso; = e per ultimo altra incisione nella direzione della suddescritta alla […] dorsale dell’articolazione dello stesso dito della mano sinistra, lunga 4 linee e ricucita come la prima». Nel complesso, non si poteva negare che fossero danni lievi, come pensava lo stesso giudice relatore precisando che le ferite si erano già rimarginate. Si diede quindi conto dei risultati della perizia: «Giudicavano i periti che tutte 4 quelle lesioni, e le due incisioni specialmente non interessando che la sola cute, tanto complessivamente che separatamente […] erano leggiere fino dall’origine. […] e guaribili tutte entro lo spazio di 16 giorni, perché non era necessaria una chirurgica cura». Il giudice relatore dedusse che, se le ferite erano lievi sin dall’inizio doveva significare che per produrle era stata usata poca forza. Tale ragionamento affievolì l’accusa contro i tre imputati, che da delitto si tramutava in grave trasgressione, reato minore che era compito della pretura dirimere. Il Referato, infatti, si chiude con la richiesta di rinvio degli atti e della custodia degli imputati alla pretura: «[…] che sia dichiarato non vestire il fatto i caratteri del delitto, e quindi di rinviare gli atti tutti alla competenza della locale Pret. Urb., con un cenno di questa deliberazione, perchè conosca e deliberi nei riguardi d’una Grave Politica Trasgress., se e come tale trovasse del caso […] a sua disposizione gli arrestati Giuseppe Dal Soglio detto Settimin, Benedetto Rebustello, e Gaetano Rebustello; con ordine a questo custode carcerariod’immediatamente passarli agli Arresti Pretoriali». Non sappiamo se il consesso criminale abbia approvato la proposta del relatore, ma dato che nella busta d’archivio non esistono altre carte sulla vicenda, appare lecito supporre di sì: gli atti furono inviati alla pretura, competente a dirimere i casi di gravi trasgressioni, che si espresse certamente con un verdetto, che noi non conosciamo. Da qualche parte, nella sezione relativa ai fascicoli pretoriali lombardo-veneti dell’Archivio di Stato di Vicenza, si cela il prosieguo di questa nostra storia.