Tra due secoli l’un contro l’altro armati: la Vicenza di Napoleone

Ogni periodo storico ha lasciato a Vicenza la sua traccia, ogni epoca è ben ravvisabile nella
trasformazione urbanistica della città, nel gusto delle decorazioni di palazzi e chiese, negli stili
architettonici i più diversi, nella realizzazione di ponti, mura, vie di comunicazione d’acqua e terra.
E ancora: nell’arricchimento culturale che sempre si constata quando una civiltà evolve, o per meriti
suoi o perché investita da svolte non controllabili che ne mutano radicalmente il segno, o perché fa
la conoscenza di una civiltà straniera. Esiste tuttavia, nella storia di Vicenza, un periodo storico
assai poco approfondito, forse perché il suo passaggio ha lasciato impronte più nella privazione che
nella ricchezza, più nel significato storico, ideale, politico, quindi nella dimensione immateriale, che
in quella, ben più concreta, di monili o monumenti: quello che vide la città per dieci anni soggetta
all’amministrazione francese, tra il 1806 e il 1814. Una stagione, quella napoleonica, che ha
provocato come poche altre nel corso dei secoli un sovvertimento di sistemi politici, metodi di
governo, culture radicalizzate, fondamenta ideologiche, nella Penisola italiana e in tutto il
Continente. A Vicenza, le truppe rivoluzionarie agli ordini del Generale Bonaparte giunsero la prima
volta nel 1796, al termine della vittoriosa Campagna d’Italia, ma avrebbero presto subìto la rivalsa
militare asburgica, che profittando dell’assenza del futuro Primo Console, partito per l’Egitto,
riconquistarono tutta la Valle Padana trovandosi a gestire i possedimenti di quello che, fino a un
paio di anni prima, era lo Stato de Tera veneziano. Purtroppo per gli austriaci, la loro
amministrazione del Veneto sarebbe durata l’espace de matin. Nel 1805 la Grand Armèè si riprese il
Nord Est con una fulminea avanzata che avrebbe trovato il proprio equivalente nelle pianure della
Mitteleuropa culminando con la grande vittoria di Austerlitz sulla coalizione austro-russa, il 2
dicembre, nel primo anniversario dell’incoronazione di Napoleone a imperatore dei Francesi. Il 3
novembre precedente, nel corso dell’entrata dei nuovi padroni in Vicenza ci furono modesti scontri
che davanti a Porta Castello videro l’esplosione di un proiettile da un cannone francese, che si
conficcò nel fianco di pietra di Palazzo Loschi-Zileri-Dal Verme, in pieno Corso. Una lapide di
pietra che reca scritta la data di quell’episodio adorna tutt’ora il punto preciso dove fa ancora bella
mostra di sé la bombarda arrugginita. La Pace di Presburgo, siglata il 26 dicembre 1805, confermò il
mutamento dei confini politici. Il Regno Italico, entità statuale che rimpiazzava le vecchie
repubbliche padane e che Napoleone governava per mezzo del suo figliastro Eugenio De
Beauharnais, nominato Vicerè, inglobò Vicenza e tutta l’area veneta, suddivisa in dipartimenti amministrativi, al vertice dei quali stavano i prefetti. Vicenza divenne capoluogo del Dipartimento
del Bacchiglione, durante i nove anni di amministrazione francese, che se oggi sono poco ricordati
anche per la penuria di segni esteriori risalenti a quel periodo, se si esclude l’apertura dei nuovi
cimiteri di San Felice e Santa Lucia e l’arrivo dell’illuminazione pubblica, in compenso incisero in
misura notevole sulla psicologia dei vicentini, grazie a una serie di riforme che stravolsero il tessuto
cittadino, mutandolo per sempre. I francesi istituirono un esteso apparato burocratico, espropriarono
beni e proprietà ecclesiastiche, provocando effetti deleteri per l’unità del sistema sociale, con la
chiusura di conventi e la conseguente cacciata di monache e frati, nonché la spoliazione delle molte
chiese e l’utilizzo delle stesse a guisa di stalle per cavalli e altri animali a seguito dei corpi militari
installatisi in città. Altre riforme, tuttavia, portavano con sé il progresso: dall’introduzione del
Codice Napoleone del 1810venzione del telegrafo ottico, che nel 1811 portò ai vicentini notizia
della nascita dell’erede al trono, alla promozione ufficiale della massoneria vicentina, avvenuta con
la fondazione della Loggia Scozzese sotto il titolo della Vittoria, cosa che non risparmiò le critiche
dei commentatori più reazionari, già scossi dal depauperamento che aveva colpito la Chiesa
vicentina. Nel complesso, gli anni napoleonici di Vicenza promossero l’affrancamento del ceto
borghese, associandolo al potere al fianco dell’aristocrazia urbana, tradizionale guida politica della
città. Accanto agli antichi casini dei nobili erano sorti quelli riservati a soci afferenti alla borghesia,
e quest’ultima era accorsa a ingrossare le fila dei nuovi apparati di governo. A tal proposito, il
dipartimento prefettizio di Vicenza si ripartiva in distretti, che a loro volta si ripartivano in cantoni,
unità amministrative derivanti dall’unione di più comuni. Secondo cifre redatte nel dicembre 1807,
la città appariva popolata da 29.200 abitanti. I borghesi trassero vantaggi anche dalla creazione del
Consiglio Generale del Dipartimento, che riuniva quaranta membri suddivisi tra città e contado: ai
membri di antiche famiglie nobiliari di Vicenza si affiancarono rappresentanti delle categorie
professionali, come avvocati e intellettuali, ma anche possidenti agrari e imprenditori nel nascente
ramo industriale. Per quanto concerneva l’amministrazione della giustizia, a Vicenza trovò sede una
Corte Civile e Criminale, mentre nel suo distretto operavano i giudici di pace, antesignani dei
pretori asburgici. La burocrazia vicentina si accrebbe con l’istituzione di numerosi uffici pubblici,
facenti capo all’articolazione istituzionale del Regno italico, come l’Ufficio del Registro, quello
delle Tasse, delle Ipoteche, delle Licenze, e venne sottratta ai parroci la facoltà di verbalizzare gli
atti di nascita, di morte e matrimonio, trasferita ad altre istituende sedi burocratiche di stampo laico.
Il regime napoleonico favorì l’istruzione pubblica fondando, nell’espropriato Collegio di San
Giacomo al Convento di Santa Corona, il Regio Liceo di Vicenza, che iniziò a sottrarre terreno al
monopolio ecclesiastico della cultura.

Bisogna notare che, se in una prima fase tale sterminata serie
di riforme aveva da più parti incontrato il favore di numerosi sostenitori vicentini, appartenenti ai
ceti borghese e aristocratico, quest’ultimi se n’erano in seguito disamorati. Iniziarono a mostrarsi freddi verso la sequela di innovazioni partorite dal decisionismo napoleonico, e sempre più
insofferenti nei confronti di un apparato statale fin troppo efficiente, al punto da sconvolgere gli
equilibri sociali, e da considerare coloro che ne avevano appoggiato la nascita come mere risorse
umane necessarie al suo sostentamento. Lo sgomento crescente dell’opinione pubblica nei confronti
della sorte riservata agli antichi ordini ecclesiastici della città, fu esacerbato dall’estensione al
territorio vicentino del decreto di Compiègne, nel 1810, che imponeva la soppressione totale di tutti
gli «stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comuni ed associazioni ecclesiastiche di qualunque
natura». A ciò si accompagnarono i malumori di mercanti e imprenditori, che non potevano essere
più penalizzati dalle misure protezionistiche imposte in campo economico dall’amministrazione
napoleonica, desiderosa di instaurare un blocco di proporzioni continentali che vietasse di
commerciare con la Gran Bretagna, e sempre preoccupata di finanziare i conflitti che vedevano
impegnata la Francia e i suoi stati satelliti contro le potenze coalizzate. Il continuo inasprimento di
dazi e imposte iniziò a generare manifestazioni di protesta, soprattutto nel 1809, quando numerosi
comuni del contado si mobilitarono contro l’imposta che aumentava il prezzo delle macine. Ne
conseguì una vasta insurrezione che il 5 luglio dello stesso anno sconvolse la città, con una marcia
di contadini provenienti dalle campagne circostanti: essi costrinsero la prefettura a ritirare la
deliberazione precedente con cui aveva istituito il dazio sul grano, ma anche questo non bastò a
sedare gli animi dei villici, ormai frustrati da troppi anni di vessazioni economiche, e così si ebbero
scontri in città tra gli insorti e le guarnigioni militari, che ebbero facile gioco nel metterli in fuga. I
tumulti continuarono anche nei giorni successivi, come riferì l’abate e cronista vicentino Giuseppe
Dian nelle sue Memorie: «Nel giorno 9 gl’Insorgenti chiamati col nome di Briganti si presentarono
alla Città dalla parte di S. Croce, S. Bartolamio e S. Lucia le di cui Porte erano chiuse e guardate da
gran numero di Cittadini armati. Nel corso di quella notte furono fatte alcune scariche di fucileria
dall’una e dall’altra parte». La cronaca di quei fatti violenti proseguiva narrando la grande paura
degli abitanti di Vicenza che quei «briganti», i contadini, così chiamati con evidente spregio,
s’impadronissero della città gettandola nel caos. Molti vicentini si armarono e scesero in strada per
contrastarne l’avanzata, finché gli insorti non furono dispersi e batterono in ritirata, tallonati dalla
«truppa, che inseguì sino alla montagna i detti rivoltosi, i quali colà si dispersero e fu in tal modo e
con qualche spedizione di Soldati ne’ Sette Comuni, rimessa la prima calma». Questo racconto
lasciava trasparire un momento di frattura sociale abbastanza drammatica da catturare l’attenzione
di tutti gli autori contemporanei, come ricorda lo storico Emilio Franzina. L’insurrezione del
bracciantato agrario vicentino impegnò per quasi due mesi, dal luglio all’agosto 1809, i corpi
militari italici stanziati sul territorio ed ebbe fine in modo ancor più truculento, con una serie di
condanne a morte spiccate dai tribunali speciali vicentini, che furono attivati proprio nell’agosto
1809 rimanendo in funzione fino al 1811, e che aprirono la strada al terrore generalizzato. Non ci si limitò, infatti, a condannare alla sentenza capitale, da eseguirsi con la ghigliottina, i capi della
rivolta, ma anche molti contadini che si opponevano alla coscrizione obbligatoria, nonché alcuni
parroci rimasti in qualche modo coinvolti nei tumulti delle campagne. Il decreto di coscrizione era
assai avverso ai lavoratori delle campagne vicentine, poiché sottraeva un numero ingente di uomini
alle famiglie proprio nell’età in cui essi avrebbero dovuto contribuire meglio al loro sostentamento:
riguardava tutti i giovani maschi tra i venti e i venticinque anni, richiedendo loro di prestare una
leva di ben quattro anni. Si comprende bene che tale provvedimento fu quello che, tra tutti, risultò
determinante nello spezzare quel residuo di legame compromissorio che aveva legato la società
vicentina all’amministrazione italica, quando aveva preso corpo l’avventura napoleonica. Tornando
al regime militaresco, che fu imposto dopo le rivolte che nel 1809 avevano interessato la campagna
berica, giungendo a lambire la stessa Vicenza col fuoco dell’insurrezione, esse furono davvero
ingenti. In Vicenza. Storia di una città, Emilio Franzina riporta un brano tratto dal Gazzettino di
Vicenza, in cui si dava conto alla popolazione, con cadenza quotidiana, delle sentenze eseguite,
precisando sin nei dettagli il nome, la provenienza sociale, l’età e il reato compiuto dai numerosi
giustiziati, e in cui emerge chiaramente che la grande maggioranza di essi faceva parte del
bracciantato rurale. La macchina repressiva napoleonica prese a lavorare a pieno ritmo, dando prova
di efficienza e rapidità decisionista, e divenendo il simbolo di quanto l’amministrazione statale
aveva scaricato il proprio peso sui ceti più umili. Questo, in forma sintetica, il panorama di una
Vicenza spossata da sforzi economici, oppressa da istituzioni centralistiche, le quali la
consideravano non un punto di partenza, ma di arrivo del sistema, lacerata al suo interno da conflitti
sociali in grado di farne vacillare l’equilibrio politico.

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