“Disco Inferno”. La recensione.

L’attualità di Dante è enorme e per molti versi sconcertante. Da 700 anni si fanno ipotesi, studi, apologie e critiche sulla sua opera e in particolare sulla “commedia”. Quel che lascia senza parole, quasi sgomenti, è il mastodontico lavoro di significati e significanti che non smette mai di offrire nuovi spunti, diverse prospettive. Come se nella Divina Commedia ci fosse tutto lo scibile umano, come fosse ”I Ching” da usare a scopo divinatorio. Quel che Lucilla Giagnoni e Alessio Bertallot hanno portato in scena al Teatro Olimpico è tutto questo e molto, molto di più. Voglio dirlo subito: è uno spettacolo stupendo.

La quantità di messaggi che arrivano allo spettatore è enorme e moltiplica, se possibile, l’esistente e storica enormità dell’opera in sé. Innanzitutto la voce narrante e la guida dentro al capolavoro dantesco è quella di una donna, la meravigliosa e bravissima Giagnoni. E non sono tante le donne ad aver recitato Dante, anzi. E ancor più rilevante è come non siano tante le figure di donna dentro alla “commedia”, appena otto sono le donne che “parlano” e persino Beatrice non si può proprio definire donna a tutti gli effetti, essendo più una figura simbolica che rappresenta la teologia. Quindi abbiamo subito un punto di riferimento diverso con una sua chiara prospettiva e sensibilità. La forza espressiva e recitativa di Lucilla Giagnoni è talmente dirompente che da subito entri con lei non tanto nel testo del sommo poeta, ma nei meandri dei risvolti metaforici, delle correlazioni e dei rimandi. L’apocalisse apre lo spettacolo e poi siamo dentro al primo canto, nel mezzo del cammino di una vita che è la nostra, come Lucilla sottolinea ampiamente durante la recitazione. Nostra perché Dante ci mostra la nostra verità attraverso la sua fantasia inarrivabile e “Disco Inferno” è un lavoro concettuale totalmente calato sull’oggi e quindi su noi tutti. Noi che viviamo quest’era del ferro che precede la fine dell’uomo, noi ignari dell’apocalisse che ci attende, noi che stiamo rigettando il sapere e sposando cause frivole e di declino culturale, noi che odiamo, alziamo muri, non guardiamo oltre al nostro perimetro, rancorosi e diffidenti come fiere.

Nel parlare direttamente allo spettatore “Disco Inferno” attua il compimento del suo mèta teatro, perché coinvolge su più livelli rimanendo di base ancorato ad uno storytelling attuale perché antico. Il ruolo di Alessio Bertallot in questo è fondamentale. Pensiamo dalla drum&bass di “Angel” dei Massive Attack, il cui intro viene mandato in loop durante la parte dedicata al primo canto. E sembra che nessun altra musica possa essere così perfetta per entrare negli inferi lasciando ogni speranza. Bertallot spazia tantissimo e usa una palette di colori molto ampia. “My Funny Valentine”, eseguita da Chet Baker, fa da sfondo sonoro al racconto di Paolo e Francesca, mentre una “I Feel Love” di moroderiana memoria diventa un canto delle sirene lontano. E poi la lounge italiana di Morricone, il grande Bruno Martino, le citazioni da “Twin Peaks” e “X Files” che calzano perfettamente l’atmosfera. Ad un certo punto, il dj prende il microfono e offre una versione della sua “Zitti Zitti” che portò a Sanremo col suo gruppo “Areoplani Italiani”.

E allora zitti zitti, non riflettere, non discutere
Ma sentire col cuore, buttarsi a capofitto
E allora zitti, zitti, dritto verso il centro
Non fuori ma dentro,
Non rumore ma silenzio:
Non gridare ma ascoltare
Non forzare ma lasciarsi andare
Non imparare ma dimenticare
Il silenzio è lo spazio per poter pensare.

Sul palco dell’Ariston ad un certo punto la band si fermò e rimase in silenzio per quasi 30 interminabili secondi. Un gesto a suo modo rivoluzionario. Così come appare ora rivoluzionario considerare falsa questa nostra società o almeno poggiata su falsi valori. Il pre-finale dello spettacolo vede un lungo elenco di prodotti in vendita mentre un crescendo spettrale di Ligeti accompagna la litania che termina con un lapidario: fino ad esaurimento scorte. Quello che Lucilla ed Alessio hanno portato sul palco dell’Olimpico è uno degli esempi più riusciti di declinazione moderna del classico e questo dovrebbe essere forse il senso stesso dei classici oggi come oggi. Un testo che riesce ad essere divulgativo e fortemente impattante, innovativo nei modi ma collegato a figure archetipe. “L’inferno lo abitiamo tutti i giorni, lo formiamo stando insieme e ci sono due modi per non soffrirne. Uno è diventare inferno, adeguarsi fino a non riconoscerlo più, a non distinguerlo e forse non soffrirne. L’altro è più difficile e richiede cura, lavoro, applicazione quotidiani ed è cercare in mezzo all’inferno chi è che cosa non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.

Uno spettacolo stupendo.

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