Quello delle donne al potere è un tema che, in questi tempi di quote rosa e di empowerment quotidiano, rischia di scivolare nel cliché più sdolcinato, tipo quelle campagne pubblicitarie in cui una manager in tacchi dodici conquista il mondo mentre allatta il gatto, e quindi proviamo a evitarlo. Perché se c’è una cosa che le signore in questione – quelle che, nel caos del 2025, siedono su troni, poltrone presidenziali o scrivanie da cancelliere – ci insegnano, è che il potere non è un accessorio gender-fluid, ma una faccenda spietata, spesso ereditata da antenate che hanno dovuto scalare l’Everest con i ferri da stiro in mano. Oggi come oggi ci sono 32 donne a capo di 29 paesi – presidenti, prime ministre, o entrambe le cose in un multitasking da capogiro. Non male. In un secolo di suffragette e di #MeToo, siamo passati da zero a questo manipolo di eroines. Ma attenzione: in cabinet, le donne occupano solo il 22,9% dei posti che contano, e la parità di genere nei vertici arriverà fra 130 anni, se non scoppia prima una guerra nucleare o un’altra ondata di TikTok. Tempo di aspettare che i nostri pronipoti vedano un G20 al femminile. Intanto, chi sono queste pioniere? Ne peschiamo qualcuna dal mazzo, non per stilare una hit-parade – Dio ce ne scampi – ma per vedere come, pur diverse come il giorno e la notte, condividono un tratto comune: l’abilità di navigare mari tempestosi con un sorriso che nasconde i denti digrignati.
Ursula Von Der Leyen
Iniziamo da Ursula von der Leyen, dal 2019 presidente della Commissione Europea. Ursula, 67 anni, è l’incarnazione del potere burocratico: elegante, multilinguistica, con un guardaroba che potrebbe arredare il Palazzo di Versailles. Ha gestito la pandemia come una maestra elementare che calma una scolaresca iperattiva, pompando trilioni in vaccini e recovery fund. Ma confrontatela con Claudia Sheinbaum, la neopresidente del Messico, insediata da un mesetto scarso dopo una vittoria schiacciante che ha fatto tremare i machos del cartello. Fisica di formazione, 62 anni, ebrea in un paese cattolico fino al midollo, Claudia è l’opposto: un vulcano razionale, con dreadlock e un curriculum che include il Nobel per il clima del suo mentore. Mentre Ursula negozia con i colossi europei, Claudia deve domare omicidi seriali, corruzione endemica e un’economia che zoppica. Entrambe scienziate – Ursula in medicina, Claudia in energia – usano la razionalità come scudo, ma Ursula è la diplomatica che sorride e stringe mani guantate, Claudia la combattente che calcola traiettorie di pallottole. Similitudini? Hanno entrambe l’aria di chi sa che il potere è un’illusione maschile, e lo maneggiano con la precisione di un bisturi.
Claudia Scheinbaum
Poi c’è Giorgia Meloni, l’italiana che, dal 2022, fa tremare Palazzo Chigi con il suo “Io sono Giorgia, e tu no!”. A 48 anni, è la prima premier donna del Belpaese, un record che sa di rivincita post-fascista light. Populista, con un tono da “Cesaroni” quando affronta la politica interna, madre single: incarna quel mix di tradizione e sovversione che fa impazzire i commentatori. Ha ereditato un’Italia in bolletta – debito pubblico al 140%, immigrazione come un fiume in piena – e l’ha affrontata con un nazionalismo soft che corteggia l’Europa senza baciarla. Altra cosa è Mette Frederiksen, la danese al potere dal 2019, 47 anni, bionda come una fiaba di Andersen ma dura come il welfare state che difende. Mette ha chiuso le frontiere ai rifugiati, pompato il green deal e tenuto la Danimarca in cima alle classifiche di felicità (quelle che ci fanno sentire tutti un po’ sfigati). Giorgia urla contro l’immigrazione “invasiva”, Mette la gestisce con quote e corsi di integrazione: una è la leonessa latina che morde, l’altra la vichinga che calcola. Eppure, entrambe sono figlie di un Nord-Est conservatore – Giorgia di Roma ma con radici friulane, Mette di Aalborg – e hanno scalato ranghi maschili con un carisma che mescola empatia e pugno di ferro. Differenze? Giorgia flirta con Trump e Orban, Mette con Biden e Scholz. Ma nel profondo, sono le regine del pragmatismo: il potere, per loro, è sopravvivenza quotidiana.
Mette Frederiksen
E non dimentichiamo Maia Sandu, la moldava che dal 2021 presiede un paese incastrato tra Russia e UE, come un cuscino tra due lottatori di sumo. 53 anni, economista con un PhD da Harvard, Maia è l’anti-Putin per eccellenza: ha cacciato l’oligarchia filorussa, spinto per l’adesione europea e fronteggiato blackout energetici che farebbero impazzire un black-out party. Poi c’è Sheikh Hasina, la bengalese al timone dal 2009 (con una pausa), 77 anni, la leader più longeva del club. Hasina ha trasformato il Bangladesh da cimitero di cicloni a tigre economica asiatica, con PIL al 7% annuo e milioni di donne in fabbrica. Ma il prezzo? Accuse di autoritarismo, sparizioni e un’eredità dinastica che puzza di nepotismo. Maia è la democratica fragile, che rischia ogni elezione; Hasina la matriarca inflessibile, che governa come una dea Kali con il sari verde. Simili nel gestire crisi (guerre ibride per una, disastri naturali per l’altra), diverse nel metodo: Maia persuade con l’Occidente, Hasina reprime con la mano pesante. Entrambe, però, incarnano quel potere “matriarcal-socialista” – eredità di madri fondatrici come Indira Gandhi – che vede lo stato come una famiglia allargata, da nutrire o da picchiare a seconda del caso.
Maia Sandu
Infine, un’occhiata fuori dai palazzi: Ursula von der Leyen non è sola in Europa, dove Katrín Jakobsdóttir guida l’Islanda dal 2017, un arcipelago di vulcani e uguaglianza dove le donne sono il 48% del parlamento. Katrín, 49 anni, ex giornalista punk, ha legalizzato l’uguaglianza matrimoniale e domato la crisi finanziaria con un tocco femminista. Oppure Droupadi Murmu, presidente indiana dal 2022, 72 anni, tribale orfana che rappresenta 1,4 miliardi di anime in un subcontinente caotico. Confronti infiniti: le europee sono figlie dell’Illuminismo laico, le asiatiche-latinoamericane di rivoluzioni sanguinose. Eppure, tutte condividono un superpotere: la resilienza. Hanno partorito in ufficio (Ardern, che però ha lasciato nel 2023, resta un’icona), combattuto troll online, ignorato i sussurri su “isteria mestruale” nei corridoi del potere. In fondo, confrontarle è inutile: ciascuna vince nel suo campo, ma tutte perdono se il metro è la parità vera. Il 2025 ci dice che le donne al potere sono eccezioni che confermano la regola maschilista, ma anche scintille che potrebbero incendiare il sottobosco. Non è poco. È un inizio, o forse una fine ingloriosa se non impariamo. Chissà. Intanto, brindiamo a loro, con un calice di cognac – perché il potere, si sa, va giù meglio se invecchiato.
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Le donne al potere
Quello delle donne al potere è un tema che, in questi tempi di quote rosa e di empowerment quotidiano, rischia di scivolare nel cliché più sdolcinato, tipo quelle campagne pubblicitarie in cui una manager in tacchi dodici conquista il mondo mentre allatta il gatto, e quindi proviamo a evitarlo. Perché se c’è una cosa che le signore in questione – quelle che, nel caos del 2025, siedono su troni, poltrone presidenziali o scrivanie da cancelliere – ci insegnano, è che il potere non è un accessorio gender-fluid, ma una faccenda spietata, spesso ereditata da antenate che hanno dovuto scalare l’Everest con i ferri da stiro in mano. Oggi come oggi ci sono 32 donne a capo di 29 paesi – presidenti, prime ministre, o entrambe le cose in un multitasking da capogiro. Non male. In un secolo di suffragette e di #MeToo, siamo passati da zero a questo manipolo di eroines. Ma attenzione: in cabinet, le donne occupano solo il 22,9% dei posti che contano, e la parità di genere nei vertici arriverà fra 130 anni, se non scoppia prima una guerra nucleare o un’altra ondata di TikTok. Tempo di aspettare che i nostri pronipoti vedano un G20 al femminile. Intanto, chi sono queste pioniere? Ne peschiamo qualcuna dal mazzo, non per stilare una hit-parade – Dio ce ne scampi – ma per vedere come, pur diverse come il giorno e la notte, condividono un tratto comune: l’abilità di navigare mari tempestosi con un sorriso che nasconde i denti digrignati.
Iniziamo da Ursula von der Leyen, dal 2019 presidente della Commissione Europea. Ursula, 67 anni, è l’incarnazione del potere burocratico: elegante, multilinguistica, con un guardaroba che potrebbe arredare il Palazzo di Versailles. Ha gestito la pandemia come una maestra elementare che calma una scolaresca iperattiva, pompando trilioni in vaccini e recovery fund. Ma confrontatela con Claudia Sheinbaum, la neopresidente del Messico, insediata da un mesetto scarso dopo una vittoria schiacciante che ha fatto tremare i machos del cartello. Fisica di formazione, 62 anni, ebrea in un paese cattolico fino al midollo, Claudia è l’opposto: un vulcano razionale, con dreadlock e un curriculum che include il Nobel per il clima del suo mentore. Mentre Ursula negozia con i colossi europei, Claudia deve domare omicidi seriali, corruzione endemica e un’economia che zoppica. Entrambe scienziate – Ursula in medicina, Claudia in energia – usano la razionalità come scudo, ma Ursula è la diplomatica che sorride e stringe mani guantate, Claudia la combattente che calcola traiettorie di pallottole. Similitudini? Hanno entrambe l’aria di chi sa che il potere è un’illusione maschile, e lo maneggiano con la precisione di un bisturi.
Poi c’è Giorgia Meloni, l’italiana che, dal 2022, fa tremare Palazzo Chigi con il suo “Io sono Giorgia, e tu no!”. A 48 anni, è la prima premier donna del Belpaese, un record che sa di rivincita post-fascista light. Populista, con un tono da “Cesaroni” quando affronta la politica interna, madre single: incarna quel mix di tradizione e sovversione che fa impazzire i commentatori. Ha ereditato un’Italia in bolletta – debito pubblico al 140%, immigrazione come un fiume in piena – e l’ha affrontata con un nazionalismo soft che corteggia l’Europa senza baciarla. Altra cosa è Mette Frederiksen, la danese al potere dal 2019, 47 anni, bionda come una fiaba di Andersen ma dura come il welfare state che difende. Mette ha chiuso le frontiere ai rifugiati, pompato il green deal e tenuto la Danimarca in cima alle classifiche di felicità (quelle che ci fanno sentire tutti un po’ sfigati). Giorgia urla contro l’immigrazione “invasiva”, Mette la gestisce con quote e corsi di integrazione: una è la leonessa latina che morde, l’altra la vichinga che calcola. Eppure, entrambe sono figlie di un Nord-Est conservatore – Giorgia di Roma ma con radici friulane, Mette di Aalborg – e hanno scalato ranghi maschili con un carisma che mescola empatia e pugno di ferro. Differenze? Giorgia flirta con Trump e Orban, Mette con Biden e Scholz. Ma nel profondo, sono le regine del pragmatismo: il potere, per loro, è sopravvivenza quotidiana.
E non dimentichiamo Maia Sandu, la moldava che dal 2021 presiede un paese incastrato tra Russia e UE, come un cuscino tra due lottatori di sumo. 53 anni, economista con un PhD da Harvard, Maia è l’anti-Putin per eccellenza: ha cacciato l’oligarchia filorussa, spinto per l’adesione europea e fronteggiato blackout energetici che farebbero impazzire un black-out party. Poi c’è Sheikh Hasina, la bengalese al timone dal 2009 (con una pausa), 77 anni, la leader più longeva del club. Hasina ha trasformato il Bangladesh da cimitero di cicloni a tigre economica asiatica, con PIL al 7% annuo e milioni di donne in fabbrica. Ma il prezzo? Accuse di autoritarismo, sparizioni e un’eredità dinastica che puzza di nepotismo. Maia è la democratica fragile, che rischia ogni elezione; Hasina la matriarca inflessibile, che governa come una dea Kali con il sari verde. Simili nel gestire crisi (guerre ibride per una, disastri naturali per l’altra), diverse nel metodo: Maia persuade con l’Occidente, Hasina reprime con la mano pesante. Entrambe, però, incarnano quel potere “matriarcal-socialista” – eredità di madri fondatrici come Indira Gandhi – che vede lo stato come una famiglia allargata, da nutrire o da picchiare a seconda del caso.
Infine, un’occhiata fuori dai palazzi: Ursula von der Leyen non è sola in Europa, dove Katrín Jakobsdóttir guida l’Islanda dal 2017, un arcipelago di vulcani e uguaglianza dove le donne sono il 48% del parlamento. Katrín, 49 anni, ex giornalista punk, ha legalizzato l’uguaglianza matrimoniale e domato la crisi finanziaria con un tocco femminista. Oppure Droupadi Murmu, presidente indiana dal 2022, 72 anni, tribale orfana che rappresenta 1,4 miliardi di anime in un subcontinente caotico. Confronti infiniti: le europee sono figlie dell’Illuminismo laico, le asiatiche-latinoamericane di rivoluzioni sanguinose. Eppure, tutte condividono un superpotere: la resilienza. Hanno partorito in ufficio (Ardern, che però ha lasciato nel 2023, resta un’icona), combattuto troll online, ignorato i sussurri su “isteria mestruale” nei corridoi del potere. In fondo, confrontarle è inutile: ciascuna vince nel suo campo, ma tutte perdono se il metro è la parità vera. Il 2025 ci dice che le donne al potere sono eccezioni che confermano la regola maschilista, ma anche scintille che potrebbero incendiare il sottobosco. Non è poco. È un inizio, o forse una fine ingloriosa se non impariamo. Chissà. Intanto, brindiamo a loro, con un calice di cognac – perché il potere, si sa, va giù meglio se invecchiato.
Sinistra senza bussola, federalisti senza complessi
I primi ministri socialisti sono 3 su 27 in Consiglio europeo. Le elezioni del 2024 hanno restituito il Parlamento europeo
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