Storia della censura: origini, campi di applicazione ed evoluzione nella società odierna

La censura è un fenomeno complesso che consiste nel controllo, nella limitazione o nell’eliminazione di contenuti, idee, espressioni artistiche o informazioni considerate inaccettabili, per motivi politici, morali, religiosi o sociali. Il termine deriva dal latino censura, che indica l’ufficio dei censori nella Roma antica, incaricati di vigilare sulla moralità pubblica, sui costumi dei cittadini e sulla corretta amministrazione dello Stato. I censori avevano il potere di segnalare comportamenti contrari alla legge morale e, in alcuni casi, di vietare o limitare discorsi, scritti o opere che ritenevano dannosi per la comunità.

Storicamente, le prime forme di censura sistematica si collocano nell’antichità e nel Medioevo, quando le autorità religiose e politiche controllavano la diffusione della conoscenza e della cultura. In Cina, già nel II secolo a.C., l’imperatore Qin Shi Huang ordinò la distruzione di libri e la persecuzione di studiosi considerati pericolosi per l’unità dello Stato. In Europa, la Chiesa cattolica instaurò l’Indice dei libri proibiti nel 1559 con papa Paolo IV, creando un elenco di testi vietati perché contrari alla dottrina cattolica, segnando l’inizio di una censura organizzata e centralizzata.

La censura nasce dunque dall’esigenza di controllare e modellare la società secondo valori dominanti, religiosi o politici, e di limitare l’accesso a idee ritenute sovversive, immorali o pericolose. Non si limita alla soppressione di contenuti scritti o stampati: nella storia ha interessato anche il teatro, la musica, le arti visive e, con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, la radio, la televisione e oggi i contenuti digitali. La funzione della censura è sempre stata duplice: da un lato proteggere l’ordine sociale, dall’altro consolidare il potere di chi detiene il controllo culturale o politico.

Le prime forme di censura in Italia: dalle origini all’inizio del Novecento

In Italia, la censura ha radici profonde che intrecciano potere politico, religione e controllo morale. Già durante l’Impero romano, i censores non solo amministravano il censimento, ma esercitavano un’influenza diretta sulla vita pubblica, vigilando sui costumi e punendo chi violava le norme morali condivise. Questa funzione di tutela dell’ordine e della “pubblica decenza” rappresenta un archetipo di ciò che, nei secoli successivi, diventerà il concetto moderno di censura.

Con l’avvento del Cristianesimo e l’affermazione della Chiesa come potere temporale, il controllo delle idee si fece più strutturato. dal Medioevo all’età moderna, la Chiesa cattolica divenne il principale arbitro della legittimità culturale. Il tribunale dell’Inquisizione impose un sistema capillare di selezione e proibizione delle opere letterarie, scientifiche e filosofiche considerate eretiche o pericolose. Autori come Galileo Galilei, Giordano Bruno e molti pensatori illuministi furono sottoposti a processi, censure e, in alcuni casi, condanne che segnarono il rapporto fra cultura e potere in tutta la penisola.

Dopo l’unificazione italiana avvenuta nel 1861, la censura assunse forme statali più moderne. Il neonato Regno d’Italia, pur proclamando libertà di stampa nello Statuto Albertino, prevedeva controlli stringenti su giornali, teatro e spettacoli pubblici, soprattutto in momenti di tensione politica. Il teatro, in particolare, divenne uno degli spazi più sorvegliati: copioni e rappresentazioni dovevano essere approvati dalle autorità, e le opere con contenuti politici, anticlericali o moralmente “scabrosi” venivano modificate o vietate.

Nel Novecento, con l’avvento del fascismo, la censura si trasformò in strumento sistematico di propaganda. Benito Mussolini comprese il potere della stampa, del cinema e della radio nel plasmare l’opinione pubblica. Dal 1925 le leggi “fascistissime” instaurarono il controllo preventivo su quotidiani e riviste; vennero create direzioni generali per la stampa e la propaganda, e i cinegiornali divennero veicoli ufficiali dell’ideologia di regime. Non solo la stampa politica, ma anche romanzi, film, opere d’arte e musica dovevano rispondere a criteri di moralità e conformità ideologica. Autori come Alberto Moravia e registi come Vittorio De Sica conobbero tagli, divieti e pressioni continue.

Dal secondo dopoguerra  agli anni Duemila: la lunga ombra della censura nella cultura italiana

Con la Costituzione repubblicana del 1948, l’articolo 21 sancì la libertà di manifestazione del pensiero, segnando una svolta formale rispetto al controllo autoritario del ventennio fascista. Eppure, nei decenni successivi, la censura in Italia non scomparve: cambiò pelle, adattandosi al clima politico, al peso della Chiesa cattolica e alle nuove forme di espressione artistica.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il cinema fu il campo più esposto. La Commissione di revisione cinematografica continuò a visionare le pellicole prima dell’uscita in sala, ordinando tagli o divieti quando riteneva che i contenuti offendessero il “buon costume” o la religione. Registi come Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci subirono spesso sequestri e processi. Il film La dolce vita del 1960 fu bollato come scandaloso per la rappresentazione della mondanità romana. Pasolini dovette affrontare ripetute denunce per “vilipendio alla religione” e oscenità, dal Decameron a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il cinema d’autore italiano, celebrato nel mondo, si trovò così a negoziare costantemente con il vaglio della censura.

Anche la letteratura e il teatro furono terreno di scontro. Nel 1958 il romanzo Ragazzi di vita di Pasolini fu processato per oscenità; opere teatrali di Dario Fo, come Mistero Buffo, subirono divieti di rappresentazione in molte città per il loro tono irriverente verso il potere ecclesiastico e politico. La censura si presentava come tutela della moralità, ma finiva per limitare la sperimentazione artistica e la critica sociale.

Negli anni Settanta e Ottanta, con la liberalizzazione dei costumi e l’esplosione della musica giovanile, il controllo si spostò anche su altri linguaggi. Canzoni di cantautori come Fabrizio De André, Francesco De Gregori e Rino Gaetano furono oggetto di attenzioni da parte della RAI, che imponeva talvolta divieti di messa in onda per testi ritenuti blasfemi o eccessivamente politici. Persino il fumetto, da Valentina di Guido Crepax a Dylan Dog, dovette fare i conti con accuse di oscenità e restrizioni alla vendita.

Con l’arrivo della televisione commerciale e delle prime reti private, la censura assunse nuove forme: non più solo divieti espliciti, ma pressioni pubblicitarie, regolamenti interni e una costante mediazione tra libertà espressiva e sensibilità del pubblico. Negli anni Novanta, il caso di Sabina Guzzanti e delle sue satiriche invettive politiche – più volte ridimensionate o cancellate – segnò un momento emblematico della tensione fra satira e potere.

Nel nuovo millennio, internet e i social network hanno trasformato il panorama. La possibilità di diffondere contenuti senza mediazioni ha ridotto il controllo preventivo, ma ha aperto la strada a nuove forme di censura: blocchi di piattaforme, rimozioni di contenuti per presunte violazioni di copyright o hate speech fino a episodi di deplatforming politico che consiste nella rimozione o cancellazione di contenuti o pagine internet o nei social media. Artisti, scrittori e musicisti italiani continuano a denunciare pressioni indirette, come la riduzione di spazi espositivi o il ritiro di opere in seguito a polemiche sui social.

Il 2025 non fa eccezione: polemiche su mostre “troppo impegnate”, cancellazioni di rassegne cinematografiche locali, dibattiti sui limiti della satira e dell’arte provocatoria mostrano che la tensione tra libertà creativa e controllo rimane viva. La censura, pur priva della veste autoritaria del passato, può presentarsi oggi in forma di cancel culture, pressioni economiche o scelte amministrative.

Dalla pagina scritta alla scena teatrale, dal grande schermo alle piattaforme digitali, la storia italiana dimostra che la censura non è mai solo un atto repressivo: è un indicatore dei conflitti culturali e politici di ogni epoca. Difendere la libertà di espressione significa quindi non solo opporsi ai divieti formali, ma anche vigilare sulle pressioni più sottili che, in nome della morale, del mercato o del consenso, continuano a limitare la vitalità della cultura.

Libertà di espressione e nuove forme di controllo dei contenuti culturali

La questione della censura nella cultura non è un problema astratto o lontano: è un indicatore pratico di quanto una società tenga davvero alla pluralità delle idee e alla capacità critica dei suoi cittadini. La Costituzione italiana e gli strumenti internazionali — dall’articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fino alle raccomandazioni UNESCO — stabiliscono princìpi chiari: la libertà di espressione e la libertà artistica sono pilastri della democrazia, soggetti a limiti strettamente definiti e proporzionati (ordine pubblico, diffamazione, istigazione alla violenza), non a definizioni arbitrarie di “opportunità” o “leggerezza”. Eppure, come hanno mostrato i casi recenti — dalle cancellazioni amministrative di rassegne e mostre locali, alle pressioni economiche e all’autocensura che fioriscono nell’era digitale — la minaccia alla cultura oggi assume forme più insidiose della vecchia censura preventiva.

Difendere la cultura significa dunque adottare una strategia multilivello: garanzie giuridiche reali (procedure trasparenti per la revisione e il riesame delle decisioni censorie, tutele per la programmazione culturale indipendente, accesso rapido al giudice per chi subisce limitazioni), politiche pubbliche che tutelino il pluralismo (finanziamenti distribuiti con criteri trasparenti, fondi stabili per le realtà indipendenti, consigli consultivi cittadini per la programmazione culturale), responsabilità delle piattaforme digitali (regole chiare, rimedi efficaci contro rimozioni arbitrarie, valutazioni d’impatto sulla libertà di espressione) e un robusto investimento in educazione alla cittadinanza e media literacy ovvero l’educazione e la formazione nell’utilizzo dei media contemporanei.

A questo si aggiunge il ruolo della comunità culturale: curatori, critici, artisti e operatori devono costruire reti di solidarietà professionale e meccanismi di accountability interna che resistano alle pressioni politiche e commerciali, mentre il giornalismo e il mondo accademico devono continuare a documentare, contestare e spiegare i casi di censura con rigore. La libertà artistica non deve essere un privilegio di élite ma un bene comune: limitarla in nome della “tranquillità pubblica” o del consenso immediato impoverisce il dibattito collettivo e indebolisce la democrazia. La sfida per il prossimo decennio sarà quindi trasformare la consapevolezza crescente in riforme concrete e pratiche di tutela che rendano la cultura davvero resistente alle logiche del potere e del mercato, perché soltanto una cultura libera può nutrire un’opinione pubblica vigile e una società pluralista.

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