Ma davvero serve tutto questo clamore? Siamo concretamente in pericolo identitario e politico se riconosciamo la presenza americana nella nostra cultura e nella nostra città? Negli ultimi giorni si sono levati cori di protesta e si preannunciano manifestazioni, per boicottare (quando va bene) o impedire l’Italia-America Festival che si terrà dal 12 al 14 settembre. Nella città del “No Dal Molin”, di quella sfilata del 2007, di quel referendum forse più di facciata che di sostanza ma che comunque si fece, insomma in una città che in parte si sente ferita dalla presenza militare statunitense, c’era effettivamente da aspettarsi ci fossero polemiche. Ma non così tante. La contingenza storica non aiuta, Trump è probabilmente il peggior presidente della storia degli Stati Uniti e le guerre, gira e rigira, vedono sempre l’America coinvolta. Ma tutto questo non c’entra con un festival che è prettamente culturale e non sposa cause, sacre o profane che siano. Il festival, lungi dall’essere un inno alle basi militari o un osanna agli F-35, è un’occasione per celebrare un rapporto storico, culturale ed economico che ha plasmato il mondo moderno, nel bene e nel male. Vicenza, con la sue basi americane, non è il simbolo di un’occupazione yankee, è piuttosto un crocevia di storie, di scambi, di vite che si intrecciano. Gli americani a Vicenza non sono solo soldati; sono famiglie, studenti, professionisti che hanno portato e portano un pezzo di quel vitalismo, di quella pragmatica energia d’oltreoceano che, piaccia o no, ha contribuito a fare dell’Italia un paese aperto, moderno, cosmopolita. Accusare il festival di “militarizzazione” è a dir poco un’iperbole. È come dire che celebrare la cucina italiana sia un omaggio alla mafia perché qualcuno cucina pasta nelle case dei boss. La presenza militare americana in Italia è un fatto storico, non un complotto imperialista. È figlia di un’alleanza, quella NATO, che ha garantito decenni di stabilità in un’Europa che, senza, forse starebbe ancora a leccarsi le ferite di guerre fratricide. E se a Vicenza si vuole festeggiare il legame con gli Stati Uniti, non è per inginocchiarsi al Pentagono, ma per riconoscere che tra i due popoli c’è più di un trattato: c’è un’affinità, un dialogo, un’amicizia che va oltre le divise. Ma poi, a dirla tutta, chi glielo dice ai milioni di italiani emigrati negli Stati Uniti e che hanno “trovato l’America” che non dobbiamo essere amici?

Ma oltre a questo – sebbene questo sia molto – c’è di più, ed in quel di più c’è il succo stesso del programma della tre giorni settembrina. Parliamo dell’enorme influenza culturale che l’America ci ha donato anche se noi, come Nando Mericoni, alla fine, alla mostarda e al latte preferiamo i maccheroni e il vino – grazie al cielo – ma continuiamo ad idealizzare l’America. Perché poi l’America è quella cosa lì. Un ideale. Come in “America” di Simon & Garfunkel, in cui si descrive una nazione che diventa luogo dell’animo e non geografico. Dove dietro le piccole e insignificanti frasi che i due giovani si scambiano a bordo di un autobus, c’è tutto il desiderio di una generazione di vivere oltre i confini, di respirare gli spazi infiniti delle possibilità dello spirito. L’immensa personalità Americana esce limpida da questa canzone. Le macchine contate al casello dell’autostrada sono immaginate essere di altri sognatori che vengono a cercare l’America. La ribellione e la voglia di impossessarsi della propria vita, trova sfogo e cerca spiegazione dentro al sistema, non ne crea o suggerisce altri. L’America resta il Luogo con la maiuscola. E tutte le incoerenze e difficoltà hanno soluzione (devono averla) dentro la stessa ideologia americana, matrioska monolitica di ogni opportunità, ma mai fino in fondo madre crudele. O come nel “Cacciatore”, il capolavoro di Micheal Cimino, quando dopo l’orrore del Vietnam, la follia di una guerra senza senso che ammazza e disgrega vite, gli amici rimasti cantano “God Bless America” perché da lì non esci, da quel senso di sogno e speranza che rimane nonostante tutto, da quel “We, the people” che inizia la costituzione della democrazia più vecchia del mondo.

Ma se invece fosse vero il fatto che l’America non ci ha dato nulla come valore aggiunto e solo prepotenza e consumismo? Provo a rifletterci a fondo e scopro che, a pensarci bene pure a me, a parte il vecchio west; Luis Armstrong; Billie Holiday; Jack Kerouac e Neal Cassady insieme sulla strada; l’intro della Rapsodia in Blue, tutto George Gershwin; Bret Easton Ellis che se ne fotte di tutto e tutti; i blue-jeans; la Coca-Cola; Chuck Berry quando suona la chitarra a gambe larghe; John Belushi vivo o morto; il parco di Yellowstone con gli orsi; Il giovane Holden di Salinger quando Holden chiede al taxista “dove vanno a finire d’inverno le anatre di Central Park?”; Paperino; L’ultimo spettacolo di Bogdanovich; tutto Woody Allen; tutto Mel Brooks; John Carradine quando canta in “Furore” di John Ford, suo figlio Keith Carradine quando canta in “Nashville” di Altman; Portnoy quando scopa il pranzo di famiglia (una fetta di fegato) nel “Lamento di Portnoy” di Philip Roth; tutto Saul Bellow; Gene Hackman che suona il sax ne “La conversazione” di Coppola; John Mc.Enroe che dice all’arbitro “you cannot be serious”; Hemingway non quando scriveva ma quando pescava con Fidel; gli occhi di Dustin Hoffman; la Route 66; la Rothko Chapel; John Coltrane; le dilanianti solitudini nei quadri di Hopper; Jessica Lange in abito da sera sulla zattera in “King Kong”; Ronald Reagan a cavallo nel suo ranch; Neil Young; Dean Martin ubriaco; i Simpsons; Frank Zappa; Robin Williams; quei tre giorni a Woodstock; l’incontro tra Robert Redford e l’indiano a cavallo in “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”; Robert Redford e Paul Newman nel finale di “Butch Cassidy”; i racconti di Carver; il nonno indiano del “Piccolo grande uomo” quando va a morire sulla montagna; Frank Sinatra che canta “Angel Eyes”; la gita in barca della banda di picchiatelli in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”; l’enorme indiano che sradica il lavandino per fuggire dal manicomio in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”; quando Nicholson uccide l’infermiera stronza in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”; la voce di Tom Waits; Tom Waits; Elvis Presley; l’action painting di Pollock; Charles Mingus; tutto Tarantino; Steven Spielberg; Guerre Stellari; Fonzie; John Travolta che balla; il frisbee e l’hula hoop; la musica del “Ponte sul Fiume Kwai”; il postino Henry Chinaski alle corse dei cavalli; Martin Scorsese; David Lynch; Lauren Bacall; Marylin; la sigla di Merry Melodies; la sigla di Braccobaldo Show; il Muppet Show; le prime storie o i primi cartoni di Popeye, soprattutto la storia delle streghe di mare e il cartoon con la lotta tra Popeye e Bluto sui tronchi galleggianti; la risata di Woody Woodpeacker; la Budweiser; le Simpatiche Canaglie; il senatore Mc Govern; Il Padrino uno e due, (il tre vi prego no); i capelli di Angela Davis; l’eleganza di Cary Grant; Gregory Peck in camicia bianca nel “Buio oltre la siepe”; Stanlio e Olio; Buzz Armstrong; Jim Morrison; lo Screw Driver; il Jack Daniels; Rocky 1 e anche 2 ma pure il 3 e il 4 dai; Miles Davis; Kim Basinger sempre, tranne quando balla come Carmen Russo nella bruttissima scena dell’orribile film “Nove settimane e mezzo”; l’astronave di “Alien”; l’astronave di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”; Jessy Owens; Meg Ryan; tutto Bob Dylan; tutto Melville; Emily Dickinson che non è mai uscita di casa; quel poco di Nathaniel Hawthorne che sono riuscito a leggere; Edgar Allan Poe; Lou Reed; tutto Billy Wilder; i R.E.M.; i Byrds; Franklin Delano Roosevelt; i Beach Boys; Groucho Marx; Leonard Bernstein; Manhattan; Charles Ives e la domanda senza risposta; il colloquio tra Jack Nicholson e il padre paralizzato in “Cinque pezzi facili”; la chewingum; Star Trek; la serie di telefilm “I forti di forte coraggio”; Breakfast Club; il discorso di Martin Luther King; le prime stagioni di Friends; Jason Robards e Jane Fonda che leggono il copione di Piccole volpi sulla spiaggia in “Giulia” di Zinnemann; John Cage e il silenzio; il pollo fritto; Kurt Cobain; Chicago descritta da Saul Bellow nel “Dono di Humboldt”; la canottiera di Springsteen e quasi tutti i suoi dischi; Jimy Hendrix (Janis Joplin no perché mi è sempre stata sulle palle); Marlon Brando in “Fronte del Porto”; Marlon Brando in “Apocalypse Now”; Marlon Brando che manda una squaw a ritirare l’Oscar, gli Oscar; i Beasty Boys; i Sonic Youth; Walt Whitman che contiene moltitudini; Tommie Smith e John Carlos col pugno chiuso alzato a Messico ’68; Morton Feldman; James Stewart in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; tutto John Ford; Tom Ford; alcune Ford, soprattutto quella nera dei film con Edward G. Robinson; “Scenes from an italian restaurant” di Billy Joel; i fumetti di Al Capp; Charlie Brown; Dick Tracy; i Ramones; Clint Eastwood; Michael Jordan; Michael J.Fox; Michael Jackson; MTV; il doppio cheesburger; David Byrne con la giacca oversize; Tom Hanks; David Letterman; il suono delle sirene a New York; il seno di Jane Fonda in Barbarella, dicevo, a pensarci bene pure a me la cultura americana non mi ha mai influenzato.









