Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra. Il suo governo di estrema destra è una sciagura per la causa israeliana. Chi vuole la libertà e la democrazia in quella zona, spera e prega perché Bibi cada e si voti un governo diverso e migliore. Questo va detto, chiaro, forte e netto, perché altrimenti quello che segue in questo articolo può essere capito poco, o male, o proprio per nulla. Ed il motivo è che siamo ormai dentro ad un unico pensiero, ad un unico coro. Quel coro di quella parte del mondo vastissima, vociante, indignata, inzuppata di facile morale, che oggi si è accorta del dramma palestinese, di chi subisce la dittatura islamica, di un popolo che ha diritto ad un suo stato e ad essere liberato dai terroristi. Benvenuti. Ma nel fuoco sacro dell’empatia, si rischia l’errore più antico, quello che trasforma la compassione in amnesia. E allora serve la voce roca di chi non ha mai amato gli slogan per dire che proprio adesso, ci si deve ricordare di difendere Israele, e che è un dovere morale e politico.

Netanyahu va condannato, bene ripeterlo ancora, perché la risposta israeliana a Gaza ha assunto proporzioni che valicano disumanamente i confini del diritto di guerra. I civili palestinesi, stritolati tra i tunnel di Hamas e le bombe dell’IDF, stanno pagando un prezzo che nessuna coscienza può ignorare. I bambini morti non sono “effetti collaterali”, sono vite spezzate da un calcolo cinico, da una politica che ha scelto la forza senza misura. Netanyahu ha trasformato una guerra di legittima difesa in un’ossessione bellica, ha piegato la democrazia israeliana alle esigenze del suo destino politico personale e per questo va fermato e processato.

Eppure, proprio mentre condanniamo, dobbiamo ricordare. Ricordare che Hamas è IL male. Non un movimento di liberazione, ma una teocrazia armata che usa la propria gente come scudo umano, che ha pianificato il pogrom del 7 ottobre con il sostegno silente di chi, tra i regimi arabi, temeva la normalizzazione fra Israele e il mondo sunnita. L’attacco a sorpresa, lo stupro come arma di guerra, i bambini massacrati nei kibbutz: questa è la genesi dell’inferno attuale.

E ricordare che Israele esiste. Non per concessione altrui, ma per diritto. Storico, politico, esistenziale. La sua è l’unica democrazia funzionante in Medio Oriente, con una stampa libera, una magistratura indipendente, con cittadini arabi israeliani che votano, giudici che inquisiscono primi ministri, militari che vengono processati. Un Paese imperfetto, certo, come ogni democrazia viva.
Chi oggi sventola la bandiera palestinese nelle università occidentali, chi fa il gesto delle mani legate ai concerti, chi cancella gli intellettuali ebrei in nome di una supposta “resistenza”, rischia di contribuire non alla pace, ma alla damnatio memoriae della causa israeliana. Rischia di lasciare Israele solo, come sempre accade quando il vento dell’opinione soffia forte, ma breve.
Hamas, invece, non cerca convivenza: il suo statuto (dal 1988) è esplicito: “Israele esisterà fino a quando l’Islam non lo cancellerà” (Art. 7), e chiama allo sterminio degli ebrei. Non è un’iperbole: è la loro ragion d’essere. Hamas non è un’organizzazione criminale che gestisce servizi in assenza dello Stato: è un avamposto jihadista, finanziato da Iran e Fratellanza Musulmana (la stessa matrice ideologica del Muftì di Gerusalemme e di gran parte del terrorismo mediorientale). I suoi tunnel, i suoi arsenali, i suoi 40 ospedali (una cifra spropositata per una città di 2 milioni di abitanti, metà dell’area metropolitana di Roma) servono a una guerra di annientamento. Il 7 ottobre non è un “effetto collaterale”, è IL progetto. Quello che è successo il 7 ottobre non è una “reazione” a presunte oppressioni israeliane: è la realizzazione pratica dell’ideologia di Hamas. Se la mafia uccide per controllare, Hamas uccide per distruggere.

E poi c’è la terra. Quella terra. Quella che la retorica definisce “palestinese” ma che è contesa, fin dal Mandato Britannico, da due popoli. Dire che è solo “palestinese” significa fare della storia una favola, dimenticare che quella terra è anche ebraica, che Gerusalemme non è un simbolo espropriabile, che gli accordi di Oslo, la proposta Barak-Arafat, le evacuazioni da Gaza, tutto è stato tentato. E tutto è fallito.
Difendere Israele, dunque, non significa giustificare le bombe (quale idiozia solo pensarlo) ma ricordare che senza Israele, il Medio Oriente precipita nell’abisso. Che senza Israele, la causa palestinese resta ostaggio di fondamentalisti e corrotti. Che senza Israele, noi (noi occidentali, liberali, razionali) perdiamo un avamposto di civiltà. Israele dava lavoro a 170.000 palestinesi ogni giorno, 150.000 dalla Cisgiordania + 20.000 da Gaza: lavoravano in Israele in edilizia, agricoltura, servizi. Portavano a casa uno stipendio, dignità, futuro. Poi è arrivato Hamas. E con lui, razzi, massacri e terrore. Risultato? Permessi revocati, frontiere chiuse, disoccupazione, fame. Ringraziamo Hamas. E i suoi fan con la kefiah sul divano in Occidente.
Ogni persona dotata di un minimo di cuore è straziata per quanto accade ai civili palestinesi e piange per loro e chiede il cessate il fuoco, ora, subito. Lo sgomento quotidiano è inaccettabile e il governo di Tel Aviv non ha il diritto di deportare gente provata oltre il sopportabile. Ma non dimentichiamo da dove tutto è iniziato. Non dimentichiamo che se si fossero prese sul serio le preoccupazioni di Israele nei decenni addietro non si sarebbe arrivati a questo punto. E Netanyahu sarebbe serenamente in pensione o in carcere. Non lasciamo Israele solo. Apriamo, spalanchiamo gli occhi di fronte all’enorme ondata di antisionismo. Israele non è il suo governo. Israele è un simbolo, un’eccezione, un unicum. Perché la storia, quella vera, quella che non si scrive sui cartelli dei cortei ma nei momenti di crisi, è ancora dalla parte di Israele. E se lo dimentichiamo, saremo complici. Anche noi.









