Stefano Massini al Teatro Olimpico: la sostenibile pesantezza dell’ovvio

Nell’era della permalosità, del politicamente corretto come dogma, della cancel culture e del rifiuto di ogni complessità, Stefano Massini diventa un guru e il Festival della Bellezza porta a Vicenza lui prima e Morgan il giorno dopo. Castoldi non l’abbiamo visto perché c’è un limite a tutto, ma Massini si, in un Olimpico strapieno in attesa del messia. Ora, se questo incipit vi ha già fatto capire dove andremo a parare (teniamo in grande considerazione i nostri lettori quindi abbiamo la presunzione abbiate già capito davvero) potete fermarvi qui o prepararvi commenti indignati da postare sui social sotto all’articolo, che a noi fa anche comodo. Oppure potete andare avanti, scoprirete molte cose utili.

Ogni epoca, dicevamo, ha il divulgatore culturale che si merita: 30 anni fa c’era Baricco, ora c’è Massini. Quello che faceva (benissimo) Baricco era farti venire voglia di leggere dei grandi libri, che quindi non erano i suoi. Quello che fa altrettanto bene Massini è farti capire che se fuori da un ristorante ci sono dei camion è probabile che si mangi bene e si paghi poco. In fondo sono due aspetti utilissimi alla sopravvivenza. Massini è quello che, ad un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, si è inventato un happening in cui portava la gente negli scantinati per far provare l’esperienza di cosa vuol dire vivere a Kiev. Se prendiamo il lancio originale si capisce ancora meglio: «A partire dal 6 marzo, alle 18 e 45, debutta a Firenze Bunker Kiev, di e con Stefano Massini, una “azione drammatica” rigorosamente riservata a sole 30 persone alla volta, che eccezionalmente verranno condotte nei sotterranei del Teatro della Pergola, fino a raggiungere uno spazio ristretto e semibuio, un luogo […] assimilabile ai 4984 bunker di Kiev in cui gli ucraini si rifugiano dai missili russi». Insomma è come se, per far capire cosa provano nel Congo, facessimo digiunare per tre giorni i nostri bambini. Empatia, sintonia, sinergia.

Massini però è anche quello che ha scritto “Qualcosa sui Lehman” e moltissima gente che stimiamo sul serio, lo trova un capolavoro e quindi ci fidiamo, visto che noi non l’abbiamo letto. Però ha quel fare da compagno di classe al liceo che scopre le cose e fa quello intelligente. Che già al liceo non lo sopporti, figuriamoci a 50 anni quando continua imperterrito a fare quello intelligente del liceo. Ora, non che durante la serata qui all’Olimpico abbia detto cose sbagliate, assolutamente no, anzi, erano tutte condivisibili, vere, genuine, formative e sane, ma drammaticamente specchio di ciò che viviamo, dell’epoca che viviamo, quella in cui la gente arriva appunto a declinare l’irresistibile proposta di fingersi in guerra per quaranta minuti, da un’idea di Stefano Massini. Che è meglio che farsi i selfie ad Auschwitz eh, intendiamoci, ma non che ci sia di che gioire. Massini è perfetto, non ha le maniche di camicia tirate su al gomito come faceva Baricco citando la nouvelle vague, lui ha quella finta trasandatezza che ci hai messo venticinque minuti a sistemare davanti allo specchio. Ha anche dei braccialetti finto esotici. Inizia con Shakespeare e la vita nostra cinta di sonno, poi si addentra sul concetto di bellezza (è pur sempre il festival di quel concetto lì) e parte marzullianamente col tema: la vita imita l’arte o l’arte imita la vita? A seguire, una teoria di citazioni tutte perfette: il fanciullino di Pascoli e l’adulto che però smette di giocare, Dostoevskij e la bellezza che salva il mondo, Marlene Dietrich che pensava che la sua bellezza avrebbe potuto cambiare Hitler se egli avesse accettato le sue avances (e questa è sempre bella), i grandi artisti che però nella vita erano persone orribili come Caravaggio (ma và?). Poi c’è che è la vita che imita l’arte e qui la serata è diventata più seria, perché più divertente, e quindi si è ricordato come dopo “Lo squalo” di Spielberg tutti ammazzassero squali o come dopo “Titanic” tutti volessero andare in crociera, sperando per altro nell’iceberg. Unico argomento non sfiorato è stato il problema di chi non legge Céline perché lo ritiene nazista o non esegue Wagner perché era antisemita, confondendo in maniera idiota arte ed artista, proprio come fa Sir András Schiff che, fatalità al Teatro Olimpico ha la residenza. Per finire l’intero canto quinto dell’Inferno, recitato perfettamente, che ci ha fatto applaudire convinti perché ci pareva ci stesse bene giusto per fare capire che Benigni oltre a non far ridere non sa neanche recitare Dante. O no?

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