Annalisa Carrara. Quando il teatro e la vita non sono scindibili.

Parlare con Annalisa Carrara è come prendersi una vacanza dal mondo. Quando arriva a dirti che lei si sente una campagnola stanziale capisci anche perché ti senti in vacanza. La semplicità della passione è la grazia delle cose necessarie. Una cura spontanea per le ritualità quotidiane, per quegli antri di custodia del vivere che serbiamo con gelosa amorevolezza. Annalisa pare non avere anagrafe, nel senso che non c’è un tempo in cui collocarla con precisione. Non fosse che il mondo è cambiato, eccome se lo è, e quindi anche il teatro ed il suo lavoro, potresti dire che questa donna aleggia sui tempi con un peso impalpabile. Abita storie, persone e parole e lo fa da così tanto che la corruzione umana pare aver meno potere su di lei. Che poi, intendiamoci, questo è quel che comunica. E vi fidereste voi di un teatrante? Donna per giunta! Ma essendo saltimbanchi dell’essere e calati nell’esserci, non solo ci fidiamo ma ci affidiamo quasi. E Heidegger mi perdoni. Tanto siamo tra amici.

Biografia spicciola. Nata in una delle storiche famiglie d’arte italiane, cresce sul palcoscenico del Teatro Mobile di famiglia dove, fin da bambina, è attrice in tutti i ruoli riservati all’età. Nel 1975 fonda la Piccionaia-I Carrara di cui sarà direttore organizzativo e poi Presidente, negli anni fra il 1975 e il 2000. Dal 1987 al 2000 è responsabile della progettazione del Teatro Astra di Vicenza per il quale inventa Piccole Trasgressioni di teatro, cartellone non convenzionale volto all’innovazione. Partecipa alla fondazione del Circuito regionale Arteven. Collabora con Bassano Operaestate Festival, con il circuito dei teatri privati Gat triveneto. Dal 2002 al 2017 è direttore artistico della Fondazione Teatro Civico di Schio dove, nel 2005, a fianco di Gabriele Vacis e Valeriano Pastor, progetta Lotto Zero – progetto innovativo di riabilitazione condivisa con la città per il restauro del Teatro Civico di Schio. Dall’ aprile 2017 è condirettore artistico della Fondazione Teatro Civico di Schio; è consulente per il teatro di prosa al Teatro Comunale di Vicenza; membro del CdA del Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e Vicepresidente Agis triveneto con delega allo spettacolo dal vivo. Un pezzo di storia vicentina e non solo.

Con il fratello Titino

Ho visto il mondo cambiare in teatro – esordisce Annalisa –  e non mi è mai interessato fare carriera. Appartengo al Dio delle piccole cose, mi sono ritrovata all’interno di una sere di situazioni che semplicemente vivo perché sono costantemente attiva, non riesco a vedere contesti che non possano darmi colori e vie diverse da praticare. Sono nata in una famiglia che ha cresciuto i figli sui palcoscenici, ma mica per romanticismo, era un teatro mobile e mangiavi teatro, era l’unica realtà. Una flebo di alfabeti, come nei teatri orientali in cui c’è tanto passaggio diretto dall’osservazione. Io non ho avuto un’educazione borghese ma so tutto dell’educazione teatrale. So che se entri coi tacchi a spillo in un teatro, il rumore mi disturba molto e io ho imparato a camminare in punta di piedi. A teatro devi essere invisibile. Una cosa piccola che porta al rispetto. Mi son fermata a 11 anni, a Valdagno. Era già pazzesco che il Teatro Mobile fosse durato fino al ‘68. La televisione aveva già cambiato ogni gusto. Prima, il Teatro Mobile era la cultura del paese, ogni sera c’era uno spettacolo. Si instaurava un autentico transfert con l’attore. Mio padre raccontava sempre che nel periodo di quaresima c’era un attore che faceva Giuda e non gli davano il pane in panificio. Era un’ingenuità magnifica. La comunicazione minima di un paese favoriva il fatto che le storie che ti raccontavano dal palco fossero prese per vere. Poi uno si chiede perché tanti attori finiscono in psicanalisi.

Il teatro per Annalisa è stato scuola, relazioni, gioie, sofferenze. Soprattutto è stato famiglia.

Mio fratello scrive un ricordo che io ho identico: in uno spettacolo, noi tre fratelli, facevamo i 3 figli piccolini e mio padre faceva mio padre e già qui è straniante. Mio padre piangeva facendosi andare il fumo di sigaretta sull’occhio e con quelle lacrime fumose ci diceva addio. Impersonava un militare e ci stringeva e io piangevo come fosse vero e straziante. Chiaro che così maturi una sensibilità diversa ed è una rispondenza molto attenta alle espressioni perché, di fatto, hai una formazione sentimentale di questo tipo. Quando sono responsabile io degli spettacoli ospitati, sento dal silenzio del pubblico come sta andando la recita. Il silenzio del teatro è unico. I cellulari sono accesi, come tanti avatar, anche se c’è più educazione ora che nei primi anni di “telefonino mania”.

Vivere l’arte come l’aria che respiri fin da quando sei nato, ti porta ad un rispetto per le emozioni che pochi altri possono avere. E anche ad un assoluto riguardo per le piccole conquiste materiali.

Nella mia famiglia se gli spettacoli funzionavano mangiavi, altrimenti niente. Quella razza di attori del dopoguerra era fierissima. Non erano accattoni o guitti, magari erano poveri ma erano veramente fieri e depositari di un sapere che sentivano come missione, anche perché altrimenti non fai una vita così. C’era un’incredibile fierezza. Un po’ come gli insegnanti di greco e latino che pensano di avere la lettura della vita più profonda della media. Questi però se la vivevano sulla pelle. Ho enorme rispetto per questa incredibile razza di scalamontagne.

Cos’è accaduto dopo?

Dopo è cambiato tutto. Io facevo sia l’attrice che l’organizzatrice ma ad un certo punto non avevo più tempo neanche per dormire. Così mi sono concentrata solo sull’aspetto organizzativo. La Piccionaia viene fondata nell’Agosto del 1975. Primo spettacolo fu “Ingranaggio” di Sartre al Teatro Romano di Verona.  Negli anni ‘70 in Italia nasce il decentramento teatrale. Il teatro era per lo più basato sui capocomicati, anche se il “Piccolo” già aveva iniziato  a dettare una nuova norma. Il resto erano compagnie private che giravano le città con i teatri mobili e andavano dove non arrivava il grande circuito. La Piccionaia era una cooperativa e quello era il tempo della nascita delle grandi ed importanti cooperative. L’Agis iniziò a tenere riunioni per il decentramento: decisero di eleggere una persona per ogni zona e con mia enorme sorpresa  elessero me. Stava nascendo il Teatro Stabile, io avevo 22/23 anni e mi son trovata in un direttivo a Roma davanti al gotha del Teatro italiano non sapendo nulla di politica. Per me era uno shock e ho avuto bisogno di tempo per capire. Ero un alieno, non venivo dai partiti mentre tutti erano schierati. La Piccionaia intanto andava avanti cercando progetti contemporanei che non funzionavano però sempre e così ci cercò al tempo stesso di tornare anche al classico.  Tutto fino al ‘87 quando finalmente trovammo casa all’Astra, a Vicenza. Erano anni in cui ai festival trovavi tutto il mondo; io volevo presentare quelle cose nuove e moderne e così all’Astra partimmo con le “piccole trasgressioni”. Sono passati tutti. Il mio unico rimpianto è Carmelo Bene. Ricordo uno spettacolo dell’Elfo a firma Salvatores. Si chiamava “Eldorado” e vedo questo attore napoletano giovane che pareva una forza della natura. Era Silvio Orlando. Pare ieri.

Con Drusilla Foer e Pier Giacomo Cirella

Altro momento importante per Annalisa Carrara fu l’incontro con Tinin Mantegazza. Noto per aver creato il pupazzo “Dodò” ne L’albero Azzurro (di cui era anche curatore), fu in realtà uno degli inventori del Derby di Milano (il locale, non la partita) e dopo aver parlato con i Carrara decise di importare nella grande città la commedia dell’arte. L’effetto domino è quasi istantaneo.

Era il 1982. Arriva uno di Repubblica Milano, non della redazione centrale, e mi chiede di questa storia della mia famiglia e io gli dico che siamo noi i veri proletari del teatro. Mi è uscita così, nemmeno sapevo bene cosa volessi dire, qualcuno forse me l’aveva detto. Fatto sta che dall’anno dopo ci fu un’esplosione dei nostri corsi. E poi andammo all’estero. Se riguardo le foto dell’epoca mi rendo contro che conosco piazza per piazza. Abbiamo iniziato ad un festival in Germania e dall’anno dopo abbiamo venduto spettacoli in tutta Europa. Ma anche Sud America o Londra al “Queen Elisabeth” o al Tivoli di Copenaghen davanti alla Regina. Si girava il mondo ma la cosa importante era sempre la base, il teatro a Vicenza, perché potevi portare poi qui le cose belle che avevi visto in giro.

Cosa rimane umanamente, nel senso di rapporti?

Sono nate amicizie molto forti come con Marco Paolini che ho portato a Vicenza proprio agli albori o con Andrea Pennacchi che a Schio ha tenuto per più di un decennio il laboratorio coi ragazzi. Oggi sono in pensione e ho deciso di non prendere più nessuna direzione perché credo di aver chiuso un capitolo. Sono diventata consulente del Comunale per la prosa e ho chiesto di fare l’assistente a Giancarlo Marinelli. Mi definisco assistente di concetto. Giancarlo è un direttore vero. Sono in consiglio amministrazione del Teatro Stabile, nominata dalla regione. Sono nell’ufficio di presidenza AGIS triveneto. Insomma, sono una stanziale campagnola. Ho visto la nascita degli stabili privati, quando le compagnie hanno cercato delle case teatrali. Poi è nato l’aziendalismo come in tutto l’universo mondo.  Io auspico albi professionali per la mia categoria ma ammetto che il cambiamento ha creato molta burocrazia ed oggi è diventato più importante il marketing dei numeri. Non sono passatista ma credo serverebbe un gran lavoro sulla qualità perché c’è tantissima proposta ma spesso è povera. Il mare magnum non trova mercato, non fa recite pagate, servirebbe mantenere ferma la professionalità ma riuscire a rimettere l’arte al centro. Si sente bisogno di un rapporto stretto tra palco e spettatore. Il teatro segue il mondo. Alla fine noi vendiamo un prodotto immateriale, che però è un viaggio continuo e le destinazioni sono infinite.

Con Silvia Gribaudi e Roberto Tarasco
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