ANGUANE SALBANEI STRIE STRIOSSI MARANTEGHE E RUMAOSSI

Le giornate faticose ed estenuanti dei contadini trovavano pace la sera, nel rito del “filò”. Ci si radunava in stalla, al caldo, e arrivava gente anche dalle altre case della contrada e si parlava, si beveva, si cantava, e soprattutto si raccontava. Racconti orali che avevano il pregio di passare di bocca in bocca e di generazione in generazione e così di venire tramandati. Filò deriva probabilmente dal latino “filatum” visto che l’attività di filatura era quella più solita per passare il tempo. Ma in ogni caso quei ritrovi erano collante per una comunità e facevano poi crescere una sorta di cultura letteraria anche per quelle persone, per lo più analfabete, che però così conservavano favole morali che spiegavano una cultura, un modo di vivere, una saggezza antica.

Valentina Brusaferro, autrice e regista, è cresciuta in campagna, in una casa di contadini, e conosce quel mondo così bene da non essersene mai davvero staccata, nonostante il lavoro, nonostante la vita in città, nonostante la modernità. “Non abbiamo memoria fisica del filò – mi dice Valentina –  ma abbiamo memoria dei racconti del filò. E tra questi racconti ce ne sono che mi hanno sempre colpito particolarmente. Esiste un immaginario nutrito di storie che hanno archetipi come l’anguana, donna d’acqua incantevole ma anche molto spaventosa, la stria e la marantega (sono strette parenti) un po’ erborista e un po’ alchimista ed in grado di curare mali che i medici ufficiali non erano in grado di superare, mali legati anche all’anima. Tutte figure “ponte”, che stanno sulla soglia e sono connessione con un mondo contadino veneto ma anche con qualcosa di più spirituale e pure spiritico”.

Con questi presupposti è nata l’idea di mettere in scena teatralmente quel mondo e quei racconti e la chiave di volta è stata immaginarli calati nella natura, con uno spettacolo fatto sul luogo e in movimento. “Da tempo avevamo voglia di fare qualcosa alle risorgive del Bacchiglione. Poi arrivò il covid e improvvisamente la gente parve riscoprire l’importanza dello stare in mezzo alla natura, camminare, passeggiare, inoltrarsi. E quindi da lì abbiamo iniziato a fantasticare lavorando sul mito della tradizione popolare veneta ed in particolare vicentina”.

Valentina si mette a scrivere. Tiene conto di tradizioni, di ricordi, di altri racconti, ma crea in ogni caso una storia originale, fatta di anguane e strie. “La stria è più malefica mentre la marantega ha anche una parte materna e ad esempio cura il post parto. Poi c’è lo striosso, il matto nelle carte, il bagatto, l’accumulatore seriale, colui che tutto raccoglie, che ha un sacco di oggetti di cui si circonda e usa a seconda delle necessità ed è il matto del paese e il poeta”.

L’entusiasmo di Valentina nel descrivermi il suo teatro popolare contadino, mi coinvolge molto e risveglia in me le mai sopite nostalgie per la mia campagna e quel mondo rurale che, col passare del tempo, mi diventa sempre più caro. Ma torniamo allo spettacolo che, con grande successo, è andato in scena lungo le risorgive, a fine Settembre. C’era l’anguana (Beatrice Niero), la marantega (Martina Pittarello), lo striosso (Andrea Dellai), salbaneo e mazariol (folletti interpretati da Tommaso Franchin e Gabriele Grotto). “Salbeneo e Mazariol – mi spiega Valentina – sono uno rosso e uno verde e sono strettamente collegati uno all’altro, molto vicini anche come carattere. Il salbaneo è più legato all’aria e al vento e il mazariol alla terra e al fuoco”.

Partendo da queste suggestioni si è immaginato di farle abitare all’interno dell’anello delle risorgive del Bacchiglione, dove c’è una natura che è scenario ideale. Tra l’altro è anche l’unico luogo possibile dove poter incontrare questi personaggi senza far diventare l’opera un evento legato al folklore, quanto piuttosto il tentativo di ricreare  il rito dell’incontro. Gli attori, si palesano di volta in volta lungo il percorso e diventano traghettatori della storia e del mito che è quello dell’anguana. La trama si intreccia portata avanti attraverso linguaggi specifici per ogni personaggio, ad esempio mazariol parla un linguaggio proto-verbale fatto di suoni e usa i “pignatei” che diventano una sorta di batteria stile “one man band”. Ma non solo percussioni, egli suona la natura stessa,  incontrando fonti d’acqua, cumoli di foglie o sassi e ghiaia. Di fatto, si esprime attraverso il suono.

Prosegue Valentina Brusaferro: “Non ci interessava la rievocazione storica ma il mito. Non volevamo un carnevale ma volevamo evocare una suggestione diversa che non fosse mero stupore. Abbiamo avuto reazioni forti. Un teatro nudo e crudo. Il mito narra la storia di un’anguana che si innamora di un umano ed è una regola che lei infrange perché nessuna anguana deve innamorarsi di un umano. Lei rimane gravida durante una notte di plenilunio. Le sorelle vengono a saperlo e cercano di rubarle il figlio, lei scappa e incontra una marantega (che sta sempre agli incroci) che accoglie il bambino e lo cresce. Il bambino nelle notti di luna piena è molto agitato ed attratto e si sente come chiamato e così sale sul tetto e cammina verso la luna. L’immagine finale ti dice che se guardi bene l’alone che gira attorno alla luna, le notti estive, puoi vedere la famiglia dell’anguana col figlio”.

La rappresentazione ha avuto un’ottima risposta: una decina di repliche con 35 persone a gruppo per volta, con le ovvie regole covid, che camminavano lungo l’anello delle risorgive. La produzione è stata a carico di Dedalo Furioso. “Abbiamo fatto un gran lavoro sulla lingua. Avevamo due attori che parlavano bene dialetto mentre gli altri tre no e quindi era necessario studiare e affrontare il dialetto esattamente come una lingua nuova da insegnare. Per me è stata una grande soddisfazione potermi riconciliare con un testo veneto che non fosse stereotipato. Ci siamo accorti che, tradotto in italiano, il testo non avrebbe avuto la stessa forza, perché c’è una potenza di immagini e di significati che solo il dialetto può provocare appieno”.

Tornare al passato per riscoprire tempi, modi, ritmi, valori che stiamo dimenticando, è lavoro non solo artistico o teatrale ma fortemente antropologico e sociale. E’ educazione a noi stessi, a quel che siamo stati e che potremmo ancora essere, perché quel mondo povero conservava una magia che è rimasta intatta e che manca sempre più. Elogi, solo elogi quindi per Valentina e il suo progetto, che non si ferma comunque qui. “Ho tantissimo repertorio di storie da raccontare e mi piacerebbe andare nelle contrade nelle corti a narrare e recitare. Mi immagino ognuno che si prende una sedia. Mi immagino paesi di campagna felici di passare una sera diversa”. Già, ci si immagina. E immaginando si sogna così forte che poi il sogno diventa concreto.

«Oci de bissa, de basilissa,
testa de fogo ch ‘l giasso inpissa,
nu te preghemo: sbrega sù fora,
nu te inploremo, tuto te inplora;
móstrite sora, vien sù, vien sù,
tiremo tuti insieme, ti e nu
aàh Venessia aàh Venissa aàh Venùsia.»

– Andrea Zanzotto

Valentina Brusaferro

Aprile 2024

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