The Loop Machine

Per completare la trilogia di estratti dal Tempo Brucia le Tappe ho scelto proprio le ultime pagine del libro, dove raccolgo le mie riflessioni sulletica dellunderground. Le ho scritte nella speranza che le nuove generazioni si concentrino sui concetti di collettività e di comunità, non sullegotico protagonismo del singolo.

Che cos’è una scena musicale? Credo che la definizione più corretta sia una subcultura formata da una collettività che produce, vive e supporta un fenomeno musicale caratterizzato dalle stesse sonorità, oppure legato a una provenienza geografica comune. Una descrizione piuttosto ampollosa, quasi da enciclopedia. Si potrebbe riassumere tutto in un insieme di persone che vivono musica, specificando il luogo a cui la stessa scena si riferisce. Chiaramente, la musica non si suona soltanto; si ascolta, si sostiene, si respira. Si vive.

Le scene più famose sono state quella hip-hop newyorkese a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta e quella hardcore americana della prima metà degli anni Ottanta, ambedue contraddistinte da una condivisione di non-ideali, da uno spirito giovanile rivoluzionario, da un rumoroso anticonformismo. Ci sono state scene anche nel post-punk inglese, nelle band del locale newyorkese CBGB’s, nel grunge di Seattle, nella diabolica Manchester-Madchester, nell’industrial, nel prog, nel folk, nel blues, persino nel jazz. Tutti fenomeni caratterizzati da un sentimento di appartenenza, dalla necessità e dal piacere di identificarsi con persone e idee che si sentono affini. Una prerogativa appartenente in maniera quasi esclusiva alla cultura giovanile, ai ventenni, forse perché la ricerca delle propria individualità passa anche dal comprendere quale ruolo si è chiamati a giocare nella società. In questo senso, allora, la scena è anche formativa.

Detto questo, a Vicenza negli anni Novanta c’è stata una scena? Io penso di sì. È stato un periodo creativo e aggregativo, in cui centinaia di giovani hanno vissuto una serie di eventi musicali collegati fra loro. I musicisti non erano soltanto musicisti, ma anche spettatori e talvolta organizzatori. C’era coraggio, voglia di fare, c’era il senso collettivo di una direzione che teneva assieme diverse iniziative. C’erano decine di gruppi a cui interessava scrivere e proporre musica indipendentemente dalla qualità della registrazione, anzi, l’aspetto low-fi dava credibilità e donava una specie di fascino mistico alla personalità delle band. Un denso circuito locale che, anche a detta di molti musicisti spesso in tour in giro per l’Italia, aveva pochi eguali nel territorio nazionale.

Non so cos’è accaduto a un certo punto, e non penso si limiti tutto a una visione nostalgica di un tempo che non ritornerà mai più. Credo che il momento di rottura sia coinciso proprio con l’inizio del nuovo millennio. Fino ad allora amavo una musica che rispettava il passato ma si stringeva nell’immediatezza del presente, curiosa di conoscere il futuro. Poi nella cultura indipendente c’è stato un cambio di prospettiva: dal presente al passato. Io stesso mi sono accorto che cominciavo ad acquistare vecchi dischi in quantità maggiore rispetto ai nuovi, e così facevano molti appassionati come me. Anche il mainstream reagiva in questo modo, con continui revival e vecchie citazioni. I festival non avevano più come headliner i grandi nomi della musica contemporanea, ma i mastodonti del passato. Forse tutto questo accadeva perché la qualità era calata, e con obiettività negli ultimi vent’anni non c’è stato nulla di eccezionale, ma non posso non sottolineare che tutte le band, anche quelle estreme, underground e perfino locali, a un certo punto hanno cominciato a produrre un suono troppo pulito, a mostrare un’immagine troppo patinata. Tutto appariva uguale, tutto suonava uguale. E soprattutto tutto cresceva senza coesione, come se le band fossero satelliti indipendenti. In parallelo a tutto questo io mi facevo sempre più reazionario e intollerante, restio ad accettare una società che diventava sempre più sovrappopolata e omologata. La velocità con cui cambiavano le cose, la frenesia con cui si muovevano le altre persone, l’aspetto candido ed elegante che via via assumeva la mia città esaltavano il mio senso di inappartenenza, di eterna marginalità, di inadeguatezza sociale. Le mie passeggiate in collina vennero sostituite da solitarie escursioni in montagna. Non c’è nessuna malinconia, non mi piacerebbe usare una DeLorean per tornare agli anni Ottanta e Novanta: sono anni ormai andati, ghiacciati nel passato, ho sempre vissuto qui e ora e non intendo stravolgere la mia filosofia. Però è importante sapere da dove si è venuti, perché è così che siamo diventati quello che siamo ora. Mi guardo indietro e vedo che non è successo niente, e in contemporanea è successo tutto. Sono qui perché c’è stato tutto quello che c’è stato.

Ho smesso di seguire l’underground vicentino nel 2012, tediato da tutto quello che mi circondava. Di sicuro un mio difetto. Ho composto, suonato e autoprodotto un album industrial pubblicato in formato digitale su bandcamp.com, dal titolo The Loop Machine, poi mi sono ritirato dalle scene. Sentivo che si era chiuso un capitolo: l’underground mi aveva cambiato la vita, mi aveva fatto capire che c’era un mondo oltre il mio quartiere, mi aveva fatto conoscere linguaggi e persone fantastiche. Era venuto il momento di mettere in pratica questi insegnamenti. Oggi mi rendo conto che l’underground non è mai passato, è sempre presente, è tatuato sulla mia pelle. È venuto a riprendermi, anzi, mi ha sempre sostenuto come un fratello maggiore. L’underground mi ha aiutato a sopportare questa bigotta città chiamata Vicenza, dove ho scelto di rimanere a combattere la mia battaglia ora come a vent’anni, ora come vent’anni fa.

Ci hanno chiamato Generazione X, una generazione che non sapeva cosa volere. Ma in questa città ipocrita e moralista, abitata solo da due tipi di persone, gli affaristi e le loro vittime, dove tutto muore a parte il cemento, dove niente nasce se non centrocarceri commerciali, tribunali gotham-city e nuove basi americane, noi c’eravamo. Costruivamo palchi con quattro assi di legno e collegavamo microfoni ammaccati a gracchianti impianti voce. Scrivevamo canzoni e urlavamo la gioia dei vent’anni. Appartenevamo a una minoranza e ne eravamo consapevoli; per strada la gente ci evitava, ci sentivamo diversi, antagonisti, anche se i risultati delle nostre battaglie erano spesso modesti. Avevamo la dignità di essere perdenti. È sempre difficile capire cosa fare per opporsi a qualcosa, la voce dei dissidenti non è mai tollerata nella società moderna.

Quest’anno sono passati vent’anni dal 1997, vent’anni da quando uno di noi se n’è andato troppo presto a causa di un male incurabile. Se n’è andato a vent’anni, vivendo queste cose a metà, rimanendo cristallizzato nell’immagine dei suoi vent’anni. Dicono che i vent’anni siano l’età migliore. Allora dedico questo libro a un amico che se n’è andato a poco più di vent’anni, nel 1997, vent’anni fa. Dedico questo libro ai vent’anni.

Dedico questo libro a Gianluca.

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