Il 1996 sarebbe stato un anno bisestile, e io mi preparavo a una depressione euforica. Passai alcuni weekend al Sartea, che negli ultimi mesi era diventato il locale di punta della bisboccia vicentina. A causa della folla sempre straripante era quasi impossibile muoversi da una parte all’altra della stanza. Stare lì in mezzo mi distraeva dalla solitudine. Fino a poco tempo prima si chiamava Bar Trapani, una tipica osteria da veci cartari, ma ora, con la gestione Giuliano-Ruggero, ci potevi trovare tutti i pericolosi elementi della Vicenza Underground 90 emigrati dal defunto Erawan: tifosi forzalane, artistoidi del sabato sera, musicologi falliti e sbarbine debosciate. Il Sartea era il nuovo regno della controcultura cittadina. Il successo del locale derivava da un triennio di gestione oculata, cominciata grazie alle collaborazioni tra Giuliano e i ragazzi del Vinelli, tra cui l’onnipresente Tobia. L’originale arredamento liberty era stato arricchito con proiettori Super 8 che mostravano in loop scene riprese da cartoni animati, vecchi film e documentati di viaggi. I nastri scorrevano di continuo su un binario teso lungo tutto il soffitto. Assieme ai Super 8 c’erano anche proiettori per diapositive manomesse in modo artistico e riprodotte anch’esse in loop: l’atmosfera aveva una tonalità atemporale, perfetta per estraniarsi dalla monotonia cittadina. Quando sorseggiavo un macchiato Aperol appoggiato al bancone pensavo sempre ai miei amici Canyon Detonation: se fossero stati qui, mi ripetevo, avrebbero amato il Sartea.
Diavolo, i Canyon Detonation. Quei tre farabutti mi avevano condannato a un’esistenza emarginata. Nei primi giorni dell’anno, ancora frastornato dalla recente separazione, avevo frequentato i soliti posti cercando i visi dei miei amici nelle facce degli avventori. A un certo punto avevo deciso di darci un taglio, trovando nel Sartea un posto tutto mio, dove lo spritz non era ancora una moda ma una necessità. L’atmosfera conviviale invitava a una sbronza repentina. Mega Alcol Party Yeah Mix. Unico grossissimo problema: l’alcol si trascinava dietro il tabacco, il tabacco si trascinava dietro l’alcol, così a una certa ora il fumo riempiva l’aria e i polmoni erano a rischio saturazione gassosa. La soluzione era bere ancora e ancora e diluire il fumo con il vino. Me ne stavo lì, appoggiato al bancone, cercando di rimorchiare qualche sbarbina utilizzando un atteggiamento dimesso, da poeta maledetto. Tutto inutile: le ragazze mi scansavano con disgusto. Finiva che Ruggero alle due precise urlava: “Signori, si chiude!”, frase celeberrima, poi raccattava quel che restava del mio corpo e lo scaricava sul marciapiede davanti al locale. Mi trascinavo carponi fino alla macchina e rimanevo disteso una mezz’ora tra l’asfalto e il sedile del passeggero, cercando di riprendere il controllo delle facoltà psicofisiche, oltre che di un minimo di dignità. Continuavo a ripetermi: “Se adesso si affianca una pattuglia sono fregato, sono fregato. Ripigliati, Poggio, ripigliati. Allenati a rispondere: c’è qualche problema, agente? C’è qualche problema?”
Una sera si fermò davvero una pattuglia. Riuscii a rialzarmi a fatica, concentrandomi sulla frase: “C’è qualche problema agente?”, e quando mi chiesero patente e libretto ribattei: “Scieee qualscheee p-prmmm hascenteh?”
Mi portarono in centrale a un passo dal coma etilico; con l’ultimo abbozzo di coscienza telefonai allo zio assicuratore di un mio lontano cugino di secondo grado, che conosceva il maresciallo tal dei tali amico dell’appuntato tal dei tali, e mi salvai dalla forca.