IL CIM

A novembre del 1993 Corso Palladio venne bersagliato da un volantinaggio selvaggio, da una promozione esagitata, da una pubblicità senza quartiere: sabato 20 novembre si sarebbe tenuto un concerto presso l’oratorio di San Bortolo, in un salone con tanto di palco che tutti in seguito conobbero come CIM.
Fu l’inizio di tutto, di TUTTO.
La sala era un antro buio circondato da poltroncine stile cinema, con un soffitto basso che permetteva una buona acustica. Durante il pomeriggio noi Canyon Detonation rischiammo una sortita e Bonetto nascose tre microfoni per registrare illegalmente lo show; era un imprenditore lungimirante, aveva già capito che nel giro di poche ore sarebbe successo qualcosa di leggendario.
Alle prime ombre della sera l’ondata di ragazzi che stava arrivando al CIM ce ne diede la conferma: adrenalina liquida su autoiniettore, energia intramuscolare indotta dalla brancomusica! Forse il prete si aspettava un gruppo di fan dei Nomadi riforniti d’aranciata, perché impallidì quando vide invece arrivare nugoli di punk-grunge vestiti da boscaioli, pieni di casse di birra e affamati di pogo selvaggio. Cominciò il concerto e fu la tempesta del secolo, la collera divina, l’eruzione del Vesuvio, le cavallette! Nicotine Zed, Spider Gonzales, Mr. Noisy e Strange Corner suonarono davanti decine e decine di invasati che potevano sfogare la propria potenza: lo stage diving fu sovversivo, intenso ma non violento perché si trattava di un gesto di fratellanza. Renato Castagna sbarbatello, che si era fatto prestare la maglietta dei Red Hot Chili Peppers per l’occasione, si lasciò sfuggire la ridicola frase: “Cerchiamo di non far capire a nessuno che è la prima volta che poghiamo,” poi ci legnammo come un’orda barbara in una foresta controllata da centurioni.

Una band dietro l’altra, una canzone dietro l’altra: quello che succedeva sopra il palco era secondario, noi spettatori eravamo concentrati solo a scaraventarci gli uni addosso agli altri, bastava il pestare della batteria e
partivamo a molla. Ascoltavamo pochissimo e catapultavamo all’infinito, consumando una lattina di birra dietro l’altra, finché tutto girò in un vortice di moshing. Sul palco si muovevano forme indistinte: i protagonisti della serata erano i ragazzi del pubblico, non i musicisti! Era incredibile, elettrizzante, scaldavivande: percepii che attorno a noi si stava formando una comunità di fanatici musicali.
La birra cominciò a defluire verso la vescica e cercammo in fretta un posto per pisciare; infilando una porta a caso ci trovammo di fronte a una statua della Madonna, nascosta nel buio di un altare. Ci sembrò un rimprovero perché avevamo perso la retta via; Renato ebbe una crisi mistica dovuta ai sensi di colpa e sprofondò in una catalessi irreversibile. Tentai di risvegliarlo a suon di ceffoni sulla nuca, inutilmente, quindi lo portai fuori a prendere un po’ d’aria, sistemandolo vicino al muro della canonica.
Mi accesi una cicca, soffiando soddisfatto fumo azzurrognolo nell’aria della sera. Mi sentivo appagato come dopo una sessione di sesso selvaggio, ma a pensarci bene io non ne sapevo proprio nulla di sesso selvaggio! Lì
vicino, seduta sui gradini, c’era una tipa coi capelli rossi che incrociavo sempre andando a scuola; quando passavamo uno di fianco all’altra ci guardavamo fisso negli occhi, non avevo mai avuto il coraggio di approcciarla. E poi avevo ancora in mente Francesca.
Fanculo Francesca! Presi coraggio e offrii una cicca alla tipa.
“Come ti chiami?”
“Benedetta. E tu?”
“Poggio.”
“Poggio?”
“Sì, Poggio Baruffi.”
Benedetta aveva capelli da hippie e fianchi larghi, e poi aveva uno sguardo intelligente e risoluto, sapeva benissimo cosa voleva e come ottenerlo. Ci fumammo un paio di cicche parlando di cazzate e poi ci lanciammo in un limone selvaggio sotto gli occhi di Renato, ancora cerebroleso attaccato al muro. Lo lasciammo lì a rantolare e tornammo ad assistere al concerto dell’anno.


Pogammo, ballammo, sudammo; erano cose fondamentali, era la festa, era il modo diretto di far parte dello show. Sembrava una cerimonia di iniziazione a una tribù urbana, una santa messa underground che provocava ematomi di cui andare subito fieri. A un certo punti vidi Luca dei Dinamico Pesce lanciarsi a kamikaze contro Vito dei Nicotine Zed, che aveva le spalle ben piazzate, e capii che Luca era consapevole di non aver scampo. Fu uno schianto terribile, un sacrificio doloroso ma necessario: i lividi e il sudore erano la dimostrazione che l’attitudine è la cosa fondamentale.
A fine concerto avevo i vestiti laceri e in generale ero piuttosto sconvolto.
Mi avvicinai a Bonetto facendo finta di nulla.
“Tutto ok con la registrazione pirata?”
Bonetto spalancò gli occhi, più scombinato di me. La camicia aveva un vistoso strappo all’altezza del colletto. Si batté una mano sulla fronte ed esclamò: “Cazzo ho dimenticato di accendere il registratore!”
Il CIM fu l’evento principe della nostra adolescenza, l’emozione che ci legò in un’amicizia eterna. Chi c’era se lo porta ancora nel cuore, e non credo perché CIM sia l’acronimo di Cuore Immacolato di Maria. Il CIM fu il battesimo della scena vicentina.

La fisicità era imprescindibile, ma si trattava di energia positiva e non di violenza gratuita: la cattiveria era veicolata dalla spirito di fratellanza, e il sudare o meno faceva la differenza tra essere poser o esserci dentro.
E in effetti in quel 1993 c’eravamo tutti dentro, non c’è che dire. Avevamo ascoltato i nostri fratelli maggiori, avevamo sudato a litri e ora avevamo anche noi la nostra scena, la nostra Seattle. Era giunto il nostro momento. Gli anni Ottanta erano stati anni prolifici dal punto di vista musicale e avevano forgiato generi ben definiti, suoni eccentrici che rimanevano impostati su binari piuttosto rigidi. Sebbene sia normale che la musica si formi attraverso miscele sonore, quello era stato il decennio della divisone dei generi:
l’hardcore, il metal, il post-punk, il rock, l’hip hop, la dance, e inoltre all’interno dello stesso filone musicale si distinguevano sottogeneri indipendenti, basti pensare al metal che si divideva in settori diversi, in competizione tra loro, come il thrash e l’hair metal. Noi invece questa divisione la rimescolavamo nei nostri stereo, cercando di riproporla sui piccoli palchi di provincia. Non avevamo il talento delle band americane, ma cos’avevamo poi di tanto differente? Eravamo ragazzi anche noi, e la voglia di spaccare era uguale.
Renato di queste cose non capiva niente e continuava a ripropormi Nothing Else Matters dei Metallica. Erano da sempre la mia band preferita ma lui si era innamorato solo di quel brano, che molti metallibashers della prima ora consideravano un tradimento. Allegro dei Mr. Noisy aveva addirittura cancellato la scritta Metallica dal proprio cappellino da baseball; lo feci notare a Renato e lui mi disse che i Metallica erano miliardari e che quindi avevano
ragione loro. Renato Castagna detto Occhio di Castagna era un bastardo capitalista. Io passavo mattinate nel cesso del Lioy a tenere lezioni sulle band che andavamo a scoprire, su Darby Crash che biascicava parole incomprensibili nel film The Decline of Western Civilization, su John Lydon che diceva: “Avete mai avuto l’impressione di esser stati fregati?” al termine dell’ultimo concerto dei Sex Pistols; Renato invece mi guardava interdetto e rimetteva sullo stereo Nothing Else Matters.

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