Giancarlo Marinelli

Giancarlo Marinelli è un inattuale, calato, non si sa bene quanto volentieri, nella contemporaneità. Il suo rispetto per ciò che è storia, tradizione ed eredità è accurato e prezioso. Uomo di cultura vero, ritroso allo spaccio velleitario della mondanità, ha un nido specialissimo che custodisce da buon guardiano della memoria quale egli è. Per me, che sono anti-moderno dentro, parlare con lui è gesto naturalissimo e spontaneo e l’affinità viene di conseguenza.

Cosa significa per te essere Direttore del Teatro Olimpico e contemporaneamente del Comunale? Esiste una sorta di identità dei teatri vicentini?

Se parliamo del Comunale, è uno dei pochi teatri europei che abbiamo in Italia. Ha una sua realtà e basta spingere sulla qualità, sul contemporaneo, sulle grandi produzioni, e funziona da sé, infatti è un costante successo di abbonamenti e di botteghino. L’Olimpico è un altro mondo.

Mi gioco subito la domanda chiave: che cesura c’è tra te, Nekrosius ed Emma Dante?

Totale rispetto, ma loro avevano una concezione lontana dalla mia e di difficile coniugazione con quel tempio, che è un luogo talmente “alto” che per reggere l’urto della bellezza sono convinto si debba riportare non per forza il tradizionale, ma spostare di nuovo l’attenzione esclusivamente sul luogo in sé. Il problema è concepire la parola che suoni all’altezza dell’universale e quindi dell’Olimpico. Non ho provato a piegare l’Olimpico a me ma ho fatto l’opposto e mi sono messo piccolo, piegando me stesso all’Olimpico. Un regista che arriva all’Olimpico è come un bambino a Disneyland con la differenza che io come prima cosa non son montato in giostra ma ho parlato con i giostrai, con i tecnici, i critici, gli anziani e ho imparato il rispetto.

Messa così parrebbe un ritorno alla conservazione del teatro greco e classico e nullaltro. Sbaglio?

Sbagli. Quest’anno ad esempio verrà Lucilla Giagnoni con uno spettacolo su Dante modernissimo con tanto di DJ sul palco e l’anno scorso ho portato Virginia Woolf. Il teatro Olimpico è un tempio ma questo non significa che non possa ospitare anche la contemporaneità o le avanguardie, l’importante è che siano esse declinabili all’interno del teatro e non debba piegarsi il teatro a proposte che lo snaturino o, peggio ancora, lo imbarazzino.

Non credi manchi in città una sorta di filo rosso che leghi le diverse realtà culturali?

Concordo. Stiamo lavorando sulle diverse identità accomunate dalla bellezza di Vicenza per mettere assieme i teatri e fare, ad esempio, al ridotto una programmazione, in sala grande un’altra e così via. Serve, come dici tu, un filo che unisca.

Parliamo della tua attività letteraria. Oltre che scrittore sei anche membro della giuria del premio Comisso che ti da l’opportunità di avere un osservatorio privilegiato per tastare il polso alla produzione del presente. Com’è il livello qualitativo generale?

Negli ultimi anni i libri più belli per me sono quasi sempre stati delle biografie, sulla narrativa invece siamo in crisi. Abbiamo perso di vista la voglia di affrontare le grandi storie, i grandi temi dell’umanità, e c’è sempre più autoreferenzialità e si racconta sempre meno l’uomo come essere che sta dentro la storia, quella con la S maiuscola.

Storia che compare nella tua ultima fatica, già dal titolo: “11”. Ce ne parli?

Chiaramente, come si evince facilmente, il mio nuovo libro parla dell’undici settembre. Nasce da un testo che dovevo portare all’Olimpico e racconta i giorni del 10 e 11 Settembre 2001 attraverso una polifonia di voci.  C’è una storia (vera) di un ragazzo che scatta le ultime foto degli interni di una delle due torri ma più in generale è un grande affresco della storia americana e quindi anche nostra, di tutti noi.

Nei tuoi romanzi torna spesso la famiglia, sia come istituzione che come concetto, una sorta di metafora della comunità.

La famiglia nei miei romanzi è relazione e scontro che giocoforza ha bisogno di una sintesi. Le nostre radici sono le nostre radici e tu puoi amputarle o rinnegarle ma quel che fai è segnato da dove vieni e da dove sei cresciuto. Il teatro per me segue lo stesso identico concetto. Non è un caso che continuiamo a fare le tragedie greche. Sono le nostre radici.

Viviamo nell’era del derby perenne in cui se sposi un’idea diventi un etichetta, in cui tutto è polarizzato. Non ricordo chi lo disse ma c’è una frase che io sposo appieno e dice: “L’intelligente parla dell’idea, lo stupido parla della persona”.

La polarizzazione è un problema culturale, se trasformiamo un problema sanitario in un problema politico siamo alla frutta. Questo voler etichettare tutto è assurdo, se dico che mi piace X divento improvvisamente anti Y. Il tutto è di una povertà di pensiero disarmante. Pasolini prevedeva una società in cui tutto veniva marchiato. Una società che non procede più per pensiero ma per codice.

Pasolini aveva capito quasi tutto 50 anni fa e oltre. C’è un altro grande pessimista a noi anche più vicino e forse persino anche più cupo. Parlo del “nostro” Goffredo Parise che non trovava nessuna soluzione al declino generale che lui già negli anni 70 aveva visto come irreversibile. Almeno Pasolini parlava del passato come salvezza, del ritorno alla civiltà rurale eccetera. Per Parise eravamo spacciati. Eppure amava profondamente il Veneto, si sentiva prima veneto che italiano.

Parise è uno dei più grandi intellettuali del novecento. Il fatto è che noi veneti non siamo mai stati bravi a venderci ma abbiamo autori e scrittori studiati in tutto il mondo. Vogliono farci passare per luogo di aziende e capannoni e nient’altro ma invece esportiamo da anni arte in tutto il mondo. Serve comunque un ricambio generazionale purché chi viene sappia dove andare e non sia uno che entra come sostituto tanto per fare. Temo che serva capire l’obiettivo finale di un grande viaggio culturale prima di poterlo intraprendere. Ma intanto ci si deve chiarire se si vuole o non si vuole farlo questo viaggio.

Cosa ne pensi di Vicenza capitale della cultura? In che modo sei coinvolto nel progetto?

Mi pare si stiano muovendo nel modo giusto, io ci credo molto e poi alla fine Vicenza è comunque una capitale della cultura anche oggi. Se poi viene certificato ovviamente molto meglio.

photo: Germana Cabrelle

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